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Friday, October 23, 2020

Dall'Arte allo Zero

 E' uscito in libreria il libro Dall'Arte... allo Zero. Piccolo dizionario filosofico dell'ingegneria di Vittorio Marchis (Mondadori 2020).


In una società sempre più condizionata dalle scelte tecnologiche, gli operatori nei settori più avanzati della tecnoscienza, così come i tecnici che operano nell’industria, si trovano ad affrontare prospettive filosofiche che risultano centrali e sotto molti aspetti dirimenti. Senza guardare ai ‘massimi sistemi’ e con la volontà di offrire una serie di spunti alla riflessione, i capitoli di questo libro affrontano contesti e problemi tipici della società contemporanea. Si passano in rassegna i temi che coinvolgono l’ingegneria sul fronte della filosofia, indagando le sue frontiere, contaminate dalla tecnica. I titoli di ciascun capitolo, articolati a coppie di concetti, ne evidenziano gli scarti, piuttosto che le posizioni opposte. Il libro si presenta come una prima porta verso una cultura non più vincolata dalle chiusure disciplinari, ma che riconosce nel melting pot dei saperi ‘politecnici’ la nuova sfida culturale del terzo millennio.

 Indice degli argomenti:

1. All’inizio; 2. Arte / Tecnica; 3. Beni / Cose; 4. Caso / Causa; 5. Disegno / Immagine; 6. Efficacia / Rendimento; 7. Fantasia / Invenzione; 8. Gioco / Competizione; 9. Habitat / Ecosistema; 10. Intelligenza / Ragione; 11. Linguaggio / Segni; 12. Macchina / Corpo; 13. Naturale / Artificiale; 14. Ordine / Disordine; 15. Piacere / Dolore; 16. Qualità / Quantità; 17. Resilienza / Fragilità; 18. Sistema / Finalità; 19. Tempo / Spazio; 20. Utensile / Lavoro; 21. Vita / Morte; 22. Zero / Uno / Infinito; Sullo scaffale; Indice dei nomi.

Thursday, December 3, 2020

Leonardo SInisgalli a Milano

 

"Civiltà delle Macchine", n. 5, 1955

Le mie stagioni milanesi, di Leonardo Sinisgalli

REDUCE da Padova dove ero andato per le prove scritte di Scienza delle Costruzioni e di Impianti elettrici (il mio primo passaggio sul Po) capitai a Milano la prima volta e mi feci portare in viale Romagna dove da qualche anno abitava mia zia. Era il novembre del 1933, se ricordo bene. Avevo addosso un impermeabile, retaggio degli ultimi anni di università. M'era servito anche da ufficiale: bastava che appuntassi sul bavero due stellette minute. E il bavero, infatti, era tutto punzecchiato come i polpastrelli di Madame Bovary. Ricordo, ma non c'entra niente con questa storia, la sera in cui una ragazza che frequentava la mia pensione in piazza Indipendenza, vicino alla nostra caserma, volle mettersi il mio impermeabile, il mio berretto, la mia sciabola, gli stivati, gli speroni, e uscire sulla strada per farsi salutare dai nostri artiglieri in libera uscita. A Padova e a Milano quel triste indumento si rivelò non soltanto precario, ma veramente povero. E la mia padrona di casa a Lambrate dovette simpatizzare con il cupo ingegnere mussulmano che veniva ad affrontare la nebbia così disarmato. Chi ha letto qualche mio libro conosce queste cose in un'altra chiave. Qui debbo toccare ragioni e non immagini, qui devo parlare della mia educazione al lavoro più che delle mie effimere conquiste di stile.

Prima di arrivare al noviziato, prima di giostrare con gli orari e i doveri, io ebbi un lungo periodo di disoccupazione. Ma il mio temperamento riuscì a salvarmi anche dai compromessi che, per stanchezza e per inedia, avrei potuto forse accettare quando ero davvero stufo di non far niente. "A me pare che ti non fai na got " mi disse la vecchietta di piazza Tricolore quando si accorse che mi svegliavo tardi, uscivo per mangiare, tornavo nella camera il pomeriggio per dormire. Ho raccontato tante volte agli amici che quella vecchietta spostava perfino le sfere dell'orologio per pigliarmi in castagna e proibirmi di metter piede nella stanza prima delle ore pomeridiane, l'ora in cui la mia camera al quarto piano, sul viale Biancamaria, poteva dirsi rassettata. Carmine Stella, il fratello di mia zia, mi aveva promesso un posto presso la Ditta Laros, fabbricante di piccoli motori per fuoribordo. Anche al Politecnico l'ingegner Montoro mi aveva fatto intravvedere la possibilità di un'occupazione nell'impianto di raggi X dell'Istituto di Metallurgia. Avevo lavorato con lui a Roma qualche mese e sapevo leggere negli spettri di Debye, nei microcieli di Laue.

Rasentavo le fabbriche verso il mezzogiorno, quando mi ero appena alzato dal letto, sentivo il fischio delle sirene come una frustata, guardavo le file degli operai che inforcavano le biciclette, e quelli che andavano all'osteria, e i muratori che consumavano sui margini del prato i loro cartocci. Avevo pietà di me. Ma non ero infelice, i miei compagni erano l'Amore e la Poesia. Mi consideravo fortunato? Non ricordo. Vivevo come un sonnambulo. Mio padre mi faceva mandare dalla Colombia una cinquantina di dollari al mese dai suoi cognati. Mi venivano spediti da una Ditta di Monza con cui erano associati. Il buon Tosetti, procuratore di quella Ditta, mi portò anche a Biella in automobile. Per poco non mi congelai. Egli se ne accorse, come se ne accorse Carmine Stella che andava lassù a ordinare grosse partite di pettinati per i suoi fratelli negozianti a Bogotà. Mi regalarono due tagli di abito e Carmine Stella mi portò dal suo sarto e ordinò per me un bellissimo pastrano su misura. Mia zia mi fece trovare un paio di guanti sotto l'albero di Natale. Le mie cugine mi diedero scarpe e cravatte.

Anche la mia speranza di trasferirmi a Biella in una fabbrica di tessuti svanì molto presto. Intanto io arrotavo i denti attorno agli ossi di manzo che mi affannavo a spolpare in una mensa a prezzo fisso, in piazzale Oberdan, vicino all'Ufficio delle corse. Anche l'ingegnere Picker mi aveva promesso di farmi lavorare nella sua azienda. Mi rimisi a studiare elettromeccanica. Credo che egli fabbricasse contatori e progettasse installazioni elettriche per le case e le officine. Aveva lo studio in via Tadini, all'ombra di quegli alberi indimenticabili che confinano con i giardini della bellissima ripa malfamata. Risposi anche a una offerta di lavoro che la mia padrona di casa aveva letto sul giornale. Ebbi la fortuna di essere chiamato, e una mattina di pioggia raggiunsi via Borghetto cinque minuti prima delle otto. Mi diedero da leggere un mucchio di stampati sulle applicazioni di una lega antifrizione. Poi mi capitò di dover rispondere a una telefonata dalla Germania. Non potevo cavarmela. Mi dissero che il lavoro richiedeva una perfetta conoscenza della lingua. Tirai avanti fino alle cinque del pomeriggio. Me ne tornai a casa risollevato, dopo quella tragica esperienza. La signora Mileo era afflitta della mia sorte. Ma ero innamorato, avevo la mia bella tigre che divorava da Motta babà con la crema. E poteva accadere intorno a me il finimondo, non me ne sarei accorto. Riprendemmo quelle sere a giocare a scopa e a interrogare il mio incerto destino.

L'estate venne da Bogotà un cognato di mia zia, Vincenzo Buraglia, con due bei bambini che parlavano lo spagnolo degli angeli e mi chiamavano " il capitano ". Vincenzo Buraglia era un meccanico provetto, pieno di genio e di bontà. Mi trattava perfino con rispetto, per via della mia laurea. Ma si accorse subito che io non sarei stato capace di avvitare un bullone o di mettere a posto la punta di un trapano. Sapevo tanto di matematiche, ma capivo pochissimo di macchine. Le mie mani erano rimaste stupide. Ero ammiratissimo della sagacia di Vincenzo, gli invidiavo le nocche robuste e capaci, le orecchie attente a qualunque irregolarità nel funzionamento dei cilindri. Vincenzo distingueva i buoni vini e i cattivi lubrificanti. A Milano aveva portato un suo brevetto, un nuovo tipo di carburatore a farfalla che avrebbe dovuto costruire per la Zanchi-Angeloni. Si cominciarono a far le prove nel Laboratorio di Macchine del Politecnico sotto il controllo dell'ingegner Spelluzzi. Facemmo anche molti viaggi sulle autostrade. La farfallina d'alluminio ogni tanto perdeva qualche ala e il carburatore rimaneva soffocato. Vincenzo Buraglia pensava d'inserirmi nella società che si sarebbe certamente costituita per fabbricare il suo apparecchio. Sognava licenze da vendere in tutto il mondo, fabbriche da impiantare in tutti i Paesi. Avevamo fatto insieme molti viaggi, sperperato molto danaro. Ritornarono l'autunno in Sud America. Io mi decisi ad anticipare perfino una caparra a un filibustiere che abitava accanto a noi, in via Teodosio, e che mi aveva promesso lavoro in un'industria di materiali per l'edilizia.

Era trascorso più di un anno. Un giorno il poeta Alfonso Gatto mi indicò un avviso su una colonna del " Corriere ". " Può darsi che t'interessi ", mi disse. Lo lessi: cercavano un ingegnere-giornalista per il Servizio Propaganda di una Società. Andai in via Macedonio Melloni a presentare le mie carte. Dopo qualche mese mi richiamarono e mi dissero di organizzare lezioni e conferenze sull'arredamento e l'architettura moderna. Mi riempii la borsa di campioni di linoleum. Intanto ero stato negli stabilimenti a Narni, in Umbria, per seguire la fabbricazione dei rotoli. Ebbi l'occasione di viaggiare di provincia in provincia. Passai ore bellissime a Pavia, a Mantova, a Cremona, ore che non dimenticherò mai. Stavo fuori per cinque o sei giorni, qualche volta per due settimane. Tornavo nella mia stanzetta di via Rugabella la sera di sabato. Presi gusto al lavoro. Il lavoro mi restituiva il piacere di starmene qualche volta a scrivere e a sognare, il piacere di vivere che avevo quasi perduto. Scossi la mia accidia, mi svegliai. Arrivavo ai treni con solo qualche minuto d'anticipo. Io ho quasi perduto la memoria ma queste minuzie che ho racimolato di colpo devono aver avuto allora riflessi assai dolenti. Non ho fatto sforzi per allineare i ricordi della mia preistoria milanese.

Un pomeriggio di estate del 1936 mi presentai all'ingegnere Adriano Olivetti che mi aveva chiamato, per un colloquio, nel suo ufficio di via Clerici. Gli portavo il mio " Quaderno di Geometria " in un estratto della rivista " Campo Grafico "; l'avevo scritto l'inverno prima a Montemnurro, quand'ero quasi deciso a non tornare mai più in città. Occupava appena tre fogli di scrittura minutissima che presero corpo a Milano, per la gentilezza del mio caro amico Tommaso Bozza, allora addetto alla Biblioteca di Brera, in circa una ventina di pagine dattiloscritte. Non avevo altre referenze da dare; sì, qualche poesia della prima stagione che Ungaretti aveva citate, ancora inedite, in un articolo che aveva scritto per la " Gazzetta " di Amicucci. I versi "trascendentali" (l'aggettivo è di Gianfranco Contini) e i miei primi assaggi di matematica bastarono all'ingegnere Adriano per propormi la direzione del suo Ufficio Tecnico di Pubblicità. Designazione a quei tempi ambitissima per l'alta tradizione che in pochi anni ­ attraverso l'opera di Xanti Shawinsky, di Costantino Nivola (entrambi in Nord America oggi) e il fanatismo dell'indimenticabile Zweteremich ­ quello studio era riuscito a imporre in Italia e fuori. Il mio curriculum di appena un anno presso la Società del Linoleum mi era servito a qualcosa; sull'esempio di un uomo integro e astutissimo, un celibe vegetariano e poliglotta, il signor Lesti (poi passato alla Direzione Commerciale della Saffa) avevo imparato qualche regola, qualche segreto di quella che era allora considerata la strategia pubblicitaria. Il signor Lesti non dava, seguendo l'esempio degli americani, grande importanza alla forma del messaggio; egli pensava che un buon servizio doveva funzionare in strettissimo accordo con i venditori. Il cliente non aveva la fisionomia che noi gli abbiamo dato, egli non lo sopravvalutava, non lo aggrediva. Lo raggirava, lo circuiva, non lo prendeva di petto. Ma pochi meglio di lui saprebbero ancor oggi valutare l'efficacia e il prezzo di un intervento pubblicitario. Quanto si può pagare la copertina di tutti gli elenchi dei telefoni? Quale può essere la convenienza di un manifesto diffuso in tutto il Paese? E qual è la dimensione giusta di un annuncio da pubblicare sui giornali? Conviene tenere fisso l'annuncio o svolgere una serie di argomentazioni? Qual è il ritmo migliore per un prodotto di largo consumo e per uno strumento di lavoro? Erano problemi di cui il signor Lesti possedeva sempre la soluzione giusta, problemi che ancor oggi si presentano insidiosi e imbarazzanti. Quand'io andai alla Olivetti conoscevo dunque un po' di questa aritmetica, di questa ars divinatoria. Ma chiesi un impegno superiore al mio mestiere. Più che affidare i risultati alla tattica, al calcolo statistico, io puntai con molta temerarietà sulla simpatia, sulla seduzione di un linguaggio nuovo, sulla messa a fuoco di una serie di immagini un poco enigmatiche, chiamando il lettore, l'utente, a partecipare a una specie di symposium dell'intelligenza, a una parade, a un certame. Con la collaborazione di un gruppo di allievi della Scuola di Monza (Pintori, Guzzi, Algarotti) riuscimmo a fabbricare in pochi anni una tale congerie di monadi, di matrici, di cellule, di molecole grafiche, plastiche e pittoriche, da surclassare tutto il lavoro del genere che si faceva in Italia.

Noi affermammo che una pagina stampata, una vetrina, un fotomontaggio costituivano delle testimonianze nientaffatto trascurabili della nostra civiltà, della nostra cultura. La fabbrica di Ivrea lavorava con una tolleranza che non doveva superare il millesimo di millimetro; come potevamo noialtri dimostrarci sciatti o approssimativi? Credo di aver io stesso facilitato allora i primi incontri tra l'ingegnere Adriano Olivetti e Marcello Nizzoli, nello studio di via Rossini, dove Nizzoli lavorava da almeno vent'anni. E fin da allora ebbi modo di discutere con loro i primi simulacri in gesso e in legno di quella che dopo qualche anno divenne la "Lexikon", la macchina per scrivere più bella del mondo. Da uno stanzone che occupavamo sul cortile ci trasferimmo al primo piano su via Clerici, e ricordo ogni sera il passaggio in bicicletta, sempre alla stessa ora, dell'uomo-cane, il latrato che era per noi come il suono dell'Angelus. Quel nostro mestiere non dispiaceva neppure ai nostri amici. In via Clerici capitarono Vincenzo Cardarelli ed Elio Vittorini, Quasimodo e Gatto, Sandro Penna e Vittorio Sereni. Capitarono pittori, scultori, architetti. Persico era morto qualche anno prima e noi ci consideravamo tutti suoi discepoli, perché fu lui, fu il suo esempio, i suoi discorsi, i suoi incoraggiamenti a farci considerare allo stesso livello la dignità del lavoro e la responsabilità dell'arte. Ci sentivamo sempre confortati e ammoniti dalla sua cara ombra.

Le nostre audacie, i nostri entusiasmi, il mio fanatismo di allora non si giustificherebbero, non si capirebbero se non ci fosse sullo sfondo una città come Milano, il credito che i milanesi sanno dare alle operazioni che un poco li sollevano dalla vita e dal senso comune. Io stesso non avrei mai preso sul serio certi problemi se mi fossi immiserito su un piccolo Olimpo, se anch'io, sull'esempio dei miei amici letterati, mi fossi impietrito nel mezzobusto con l'illusione di entrare così di soppiatto nella storia. Milano ci diede il coraggio di alimentare continuamente la nostra disposizione a comunicare col prossimo, anche a costo di cambiare il physique du rôle, col vantaggio di passare, come Seurat, per un personaggio qualunque, un borghese, più che per un intellettuale stravagante, cinico, scettico e, tutto sommato, noioso.

Quel mio lavoro durò ininterrotto fino al principio della guerra. Nel nostro atelier ci fu una fioritura incessante di immagini, di schemi, di apparati. Come ho detto altrove, il dèmone dell'analogia ci suggeriva ogni giorno uno spunto. I miei ragazzi erano di un'abilità portentosa, realizzavano in un batter d'occhio qualunque fantasia, gli accostamenti più inattesi di oggetti, di forme, di colore, di caratteri. Le vetrine che allestimmo nel negozio in Galleria, per un paio d'anni ogni quindici giorni, erano seguite dal pubblico come una vicenda cittadina, una gara, un exploit. Corrado Alvaro scrisse allora una corrispondenza per " La Stampa " di Torino in cui sottolineava il significato di questa partecipazione collettiva alle prove di un gusto senza compromessi, senza retorica, senza piaggeria. Finalmente " la merce " guadagnava la sua dignità di " oggetto ", il frutto del lavoro di una grande officina veniva portato in mostra col rispetto e la venerazione che impone un'opera d'arte. Il nostro journalisme architectural si teneva al corrente di tutte le conquiste vive della tecnica e della espressione. Guido Modiano definì su " Domus " la stretta parentela tra architettura e grafismo in un bellissimo pezzo, dedicato ai nostri involucri rigati. Una vecchia copertina della " Domenica del Corriere " era accostata a una scultura di Fancello o di Fontana o di Broggini. Una superficie matematica pigliava risalto e significato al confronto di una tastiera ingigantita. Elio Vittorini, invitato a scrivere una prefazione alla raccolta di alcune nostre pagine di pubblicità, puntò diritto allo scopo quando definì il nostro lavoro come un contributo al riscatto dalla retorica e dal dogmatismo. Furono davvero i miei anni belli, gli anni di via Clerici, di via Rugabella, di via Velasca, di Bottonuto. Furono, è incredibile, anche le stagioni più feconde per la nostra poesia. Perché proprio in quegli anni partirono da Milano i nostri libretti di versi. E Milano, credo, non aveva avuto mai un peso così decisivo nella storia della nostra cultura. Chi legge oggi gli epigrammi a San Babila, a Porta Nuova, a Via Velasca, alle eglantine, alle pervinche, forse stenta a riconoscere la città della nostra giovinezza.

La mia seconda stagione milanese porta il peso e la responsabilità dei quarant'anni (i capelli grigi e l'emicrania, piazza Duse e via Zuretti, le trattorie di Giuntoli e di Pepori), i colori giallo e rosso della Pirelli. Dentro questi anni bisogna far entrare il trambusto di piazzale Loreto e gli odori della Bicocca. Bisogna far entrare le Alpi che qualche volta, nei giorni limpidi, io riuscivo a scoprire dalla finestra dell'ottavo piano del Palazzone. Poi la monotona e bellissima storia del marciapiede di via Vittor Pisani, dalla porta dell'Albergo Doria fino in fondo, dove, dall'altezza di un gradino appena (il gradino di un marciapiede) si scende nel piazzale della Stazione. Si scende sul piazzale con un salto di appena diciotto centimetri, che è stato sempre per me, nuotatore impossibile, un vero e proprio t tuffo a testa in giù, dal trampolino (del letto, dei libri, della solitudine) fin sotto il livello della giornata di lavoro. La storia del marciapiede di via Vittor Pisani, questo incredibile tappeto d'asfalto, più prestigioso di un tappeto orientale, più ricco di un sottobosco, più enigmatico del fondo del mare, la racconterò un'altra volta. So che una sera ho rivelato a Riccardo Manzi la mia scoperta e siamo stati insieme due ore, a testa bassa, a ripercorrere su e giù, a leggere rallentati duecento metri di film. È un film da fare, un film di duecento metri (una misura assurda!) che forse nessuno intenderà: un film sulle crepe, sulle incrinature, sui solchi, sulle lacerazioni, sulle cicatrici, sui cunicoli, sui simboli, infine, che pioggia e nebbia e gelo hanno tracciato nel bitume. E poi, eppoi c'è il trolley del tram numero 7.

Se sfoglio i miei appunti di allora, autunno-inverno 1948, trovo curiose indicazioni, trovo i segni delle prime punture, il grafico della linea di penetrazione del mondo della gomma nel inondo dei miei pensieri. Trovo scritto, per esempio, che le vie del sonno sono serpentine, e c'è vicino a questa nota uno scarabocchio che potrebbe essere anche un ritratto della tortiglia, del cord, oppure l'ideogramma di un battistrada. Appresso trovo divertimenti di questo genere: " I surrealisti devono aver cercato parole elastiche; Moore ha scoperto una scultura pneumatica; Dalì ha fabbricato orologi di caucciù ". E in altra pagina, trascritta l'ultima terzina di un famoso sonetto di Rimbaud: " Où, rimant au milieu des ombres fantastiques. Comme des lyres, je tirais les élastiques Des mes souliers blessés, un pied contre mon coeur! ".

È chiaro, si tratta di schermaglie, di difese superflue, di raggiri premonitori: il regno del flessibile sceglieva le vie più tortuose per farsi strada nel mio cervello.

Poi ci furono le impressioni in fabbrica. " I fili, i canapi, le trecce, i cavi dentro cui trascorreranno i fremiti delle acque, i sobbalzi delle piogge e delle nevi. I fili di rame che svuotano i laghi, ecc. ". Il 29 novembre 1948 feci la seconda visita ai cavi (i cavi m'intrigavano non c'è dubbio). " L'operazione più intrinseca che si compie entro queste immense navate, questi altissimi padiglioni, consiste nel proteggere il rame dal contatto diretto con la terra. È strano come tutti i traslochi delle cose più delicate e lubriche, sangue, semenza, clorofilla, linfa, energia, vis, suono, si compiano meglio all'oscuro, sottoterra. L'isolamento dei cavi deve evitare le dispersioni di corrente, deve tamponare qualunque eventuale e possibile emorragia. E gli operai addetti alle macchine fasciatrici hanno anche nella figura qualcosa che ricorda gl'infermieri e gli aiuti delle sale operatorie. C'è ancora di più: il sistema di bendaggio (gomma, carta, miscela, olio) ricorda molto da vicino i processi di mummificazione. Con la differenza che davvero entro questa basilica si opera una difesa dell'anima., perché l'elettricità è tutta anima e niente corpo. Il midollo di questi possenti pitoni (lunghi anche mille metri e grossi fino a centocinquanta millimetri) è quasi sempre triplice, ternario, perché in effetti, l'energia è trigemina. È un triangolo. Una trinità ".

Vedete, ero già posseduto. Ero perduto.

Fu in quella stessa epoca che visitai alla Bicocca il prof. Allavena e conobbi il dott. Oberto, e mi documentai sulle macromolecole, sulla memoria della gomma (l'isteresi elastica è memoria!) e sull'influenza che il nerofumo (in polvere millesimale) e lo zolfo (il fiato di Satana) esercitano sull'assetto delle catene molecolari.

Così dopo un rapido noviziato, tra alchimia e tecnologia, presi il mio posto tra produzione e distribuzione, tra operai e clienti. Ebbi poco tempo per sottilizzare sulla vendita e sul vantaggio. Mi buttai nella mischia, mi attaccai ai telefoni. Ogni gesto doveva da allora diventare pubblico, manifestarsi, chiamare, soccorrere, spingere, urtare, sedurre. Fu allora, novembre 1948, che intorno a noi, Luraghi, Tofanelli e io, cominciammo a radunare gli amici e a coinvolgerli nelle nostre stesse responsabilità.

Devo dire di più. Luraghi accarezzava da tempo il progetto di una Rivista Aziendale e per questa iniziativa aveva ottenuto il consenso del dott. Alberto Pirelli e l'adesione degli altri direttori. Credo che ne parlasse a Tofanelli fin dall'estate del 1948. E a quel tempo, infatti, risalgono le prime " avances " che Tofanelli mi rivolse per convincermi a tornare a Milano, sulla breccia. E in verità, ripreso a Milano il mio lavoro accanto a Luraghi, trovai dopo qualche giorno già pronti un progetto che " in nuce " o in bozzolo, o in germe, conteneva l'idea della Rivista. Lo so che " dal germe di un'idea può nascere Apollo oppure un mostro ": devo dire che per il calco già pronto non fu difficile scegliere il materiale meglio rispondente, meglio aderente al disegno di quella forma.

Fu discusso a lungo il titolo, fu vinta anche la nobile riservatezza del dottor Piero e del dottor Alberto: ci si convinse tutti che quel nome, meglio di qualsiasi sigla astratta e di qualunque proposito presuntuoso, poteva accogliere in Italia e all'Estero una massa imponente di amici guadagnati in settanta anni. Rimando il lettore alle precise parole introduttive che comparvero nel primo numero, a pag. 8, con la firma di Alberto Pirelli.

Che cosa distinse subito, fin dai primi numeri, la Rivista Pirelli dalle altre pubblicazioni analoghe? C'erano sulla piazza ottimi esempi: " Ferrania ", " Edilizia Moderna ", la " Rivista del Vetro ", varie riviste farmaceutiche. C'erano stati, ma tanto remoti, i venti numeri e più di " Tecnica ed Organizzazione ", stampati a Ivrea dalla Olivetti. Devo dire che lo stacco da quel genere di divulgazione fu netto. Perché i due piatti della bilancia, tecnica e cultura, problemi e suggestioni, inchieste e letteratura, concretezza e divagazione, furono tenuti sempre in equilibrio. E i nomi di Ungaretti, di Montale, di Quasimodo, di Baldini, di Vergani, di Carrieri, di Calzini, di Bernari, di Valsecchi, di Dorfles, di Linati, di Barisoni, di Biasion, di Manzi, di Munari, li troviamo fin dai primi numeri affiancati a Canestrini, Ambrosini, Verrati, Cesura, Nutrizio, Minoletti, Dicorato, Bonicelli, Gennarini, Laurenzi, Sorrentino, Patellani, Suppini. Convincere letterati e giornalisti (e tra i più illustri) a scoprire i segreti della tecnica, della scienza, del progresso (lo sport trova tifosi più disponibili in ogni categoria) è stato un vanto della Rivista. Che bandì con successo anche due concorsi, il primo per tre racconti sportivi, il secondo per dieci cronache sportive.

Pubblicammo in quattro anni tutti articoli di prima mano, tutti scritti inediti. Provocammo incontri tra scienziati e giornalisti, tra tecnici e poeti. Senza tema di commettere eresie mandammo i reporters negli studi, nelle aule, nei laboratori a sorprendere con lampi di magnesio personaggi tanto illustri quanto riluttanti, come Severi. Amaldi, Marcello, De Marchi, Gabrielli, Nervi, Colonnetti, Ponti, Fauser, Padre Gemelli, Smeraldi.

Se si pensa che soltanto in questi ultimi anni il giornalismo italiano ha guadagnato " in funzione " quanto ha perduto " in rappresentazione ", se si considera che è tanto difficile da noi torcere il collo alla retorica e che si può essere tacciati di improntitudine se si chiede uno scritto su tema obbligato, perché il bau bau dell'ispirazione, non è del tutto sotterrato, si comprende meglio il significato di un lavoro che, bene o male, era una prova di sottomissione, non certo di orgoglio.

All'intelligenza italiana non si sollecitarono sviolinate ed exploits, ma piuttosto constatazioni, sopraluoghi, rendiconti. Tanto meglio se qualcuno riusciva ad accendersi di fronte a una tesi, a un incontro imprevisto, a uno spettacolo, a un dispositivo. Devo confessare sinceramente che il tempo dei Francesco Redi e degli Algarotti, per non dire dei Galilei e dei Cattaneo è davvero lontano. La nostra cultura è quasi tutta impastata di storia e di oratoria. È impastata per fortuna anche di poesia. E io credo nell'acume, nella curiorità, nell'entusiasmo dei poeti: credo nella loro capacità di sorprendersi, di riflettere, di approfondire.

Vorrei dire, di straforo, che una delle mie ambizioni fu proprio questa: provocare, stimolare una prosa analitica piuttosto che il solito pezzo commemorativo, un referto e non un inno, un commento non una predica. Io sono sicuro che se i nostri scienziati e i nostri tecnici considerassero l'esercizio della scrittura alla stregua di un'operazione dignitosa, (una vera e propria lima del pensiero) qual è sempre stata per Leonardo o per Cartesio, per Leon Battista Alberti o per Maxwell, per Linneo o per Einstein, e se viceversa i letterati e i filosofi e i critici, come hanno fatto del resto Goethe e Valery, Hegel e Bergson, Giedion e Dewey, accogliessero, con rinnovata simpatia, le ipotesi e i risultati del calcolo e dell'esperienza, una concordia nuova potrebbe sorgere tra le inquietudini e le stanchezze del nostro tempo, non voglio dire un nuovo mito. È molto probabile che questo genere di letteratura " a comando ", questo giornalismo tecnico prenda il sopravvento sulle pagine scritte in libertà, sulla prosa gratuita, sulla scrittura disinteressata. Abbiamo letto in questi ultimi giorni una " memoria " che accompagnava la relazione di un bilancio di una grande società finanziaria belga: un saggio sull'utilizzazione delle materie prime che poteva portare una firma celebre, ed era invece soltanto una plaquette anonima. Io aspetto il gran giorno in cui il Regno dell'Utile sarà rinverdito dalla cultura, dalle metafore, dall'intel1igenza. Quest'estate ho aperto qualche libro dei nostri illuministi, l'abate Galiani, Filangieri, Verri. Mi veniva da confrontare la nitidezza dei loro pensieri e delle loro parole alle sbavature, alla schiuma, alla sciattezza di tanti articoli di fondo dei nostri giornaloni. Ho cercato sempre di stimolare nei collaboratori la ricerca di un'espressione meditata: ma c'è ancora molto cammino da percorrere per guadagnare precisione e leggerezza.

Ho rispolverato alcuni vecchi ricordi e qualche memoria di ieri. Ho voluto pagare il mio tributo a una città adorabile, a degli amici carissimi. Per i miei lettori di oggi, i lettori di " Civiltà delle macchine ", ho creduto, necessario dopo quasi tre anni di sodalizio (" Civiltà delle macchine " prese forma, appunto tra il settembre e l'ottobre del 1952) mettere sul tavolo anche le mie carte più antiche. La nuova impresa, temeraria e affascinante a cui mi sono votato, in questi ultimi tre anni ha successi superiori a ogni speranza. Siamo sicuri di poter fare ancora meglio.

Friday, December 14, 2018

Friday, December 13, 2019

Protesi

Miti postindustriali  di Vittorio Marchis

Protesi, ovvero la metamorfosi (1)
"La natura è in grado di compiere cose straordinarie senza l'intervento degli spiriti maligni. Se la natura, poi, è aiutata dal sapere e dall'ingegnosità umani, allora i risultati saranno quasi incredibili per gli inesperti" (Ruggero Bacone, I segreti dell'arte e della natura, cap. IV)
Si racconta che un tempo, in un paese oggi scomparso e ormai ridotto a semplice landa desolata, arida e priva di ogni scrittura della passata storia, vivesse un popolo di uomini e donne supremamente intelligenti. Questi uomini e queste donne, bellissimi, non avevano bisogno di lavorare perché il loro pensiero era sufficiente a far sì che le risorse naturali bastassero non solo alle necessità, ma soprattutto al loro diletto. Conoscevano il piacere dei sei sensi e anche il procreare era ridotto a puro linguaggio, a trasmissione di emozioni e simpatia. Si è già detto che questi uomini e queste donne non avevano bisogno di lavorare. E perciò essi non avevano né mani né braccia.
Chi argomentasse, con il nostro modo di pensare, che essi erano più simili agli animali che a noi sbaglierebbe di grosso, perché in verità la loro prossimità agli dei era quanto noi non possiamo nemmeno immaginare.
Un giorno, una giovane di nome Protesi ebbe la ventura di essere trasportata dal mare, a causa di una tempesta, sulla spiaggia di un'isola abitata dagli uomini, ossia da esseri pari a quanti raccontano e tramandano questa storia. Quando, dopo un lungo sonno, Protesi si svegliò, trovò dinanzi a sé uomini e donne ben più brutti e rozzi di lei. In fondo anch'essi avevano una testa, un torso, un ombelico, due
gambe; sorridevano e muovevano le labbra; si toccavano e si facevano segni. Ma avevano qualcosa che li rendeva diversi: due articolazioni, simili alle gambe, ma più sottili, dotate di estremità ramificate e estremamente mobili si dipartivano dalle spalle, leggermente al di sopra e a fianco delle mammelle. Usavano questi rami per afferrare le pietre, per spezzare le foglie degli alberi, per staccare gli acini dai grappoli e per disporli in file ordinate, per tracciare insulsi segni sulla sabbia. Ciò che più impressionò Protesi fu il vedere un vecchio, ormai cieco, usare le mani (così le chiamavano) per tamburellare su alcune canne, producendo in questo modo suoni mai ascoltati, strani, ma desiderabili. E fu colta da invidia.
Pregò allora gli dei che la facessero ritornare a casa e la rendessero simile agli uomini che aveva incontrato sull'isola. La richiesta parve agli dei alquanto strana, alcuni di essi rimasero dubbiosi, altri la ritennero completamente stupida, ma poiché le preghiere di Protesi erano insistenti e continue, e poiché gli dei si lasciano commuovere dalle loro creature, finalmente si convinsero nell'esaudire le preghiere della bellissima giovane. Nella fucina dove si forgiano tutte le cose del mondo, con i metalli più preziosi vennero fatti preparare due arti lucenti e mobilissimi, ciascuno terminante con cinque ramificazioni prensili. Dopo che gli arti furono ultimati, gli dei rapirono Protesi, ed immersala in un torpore soavissimo le applicarono gli arti esattamente a somiglianza di quelli ammirati negli uomini e nelle donne dell'isola. Quando si fu risvegliata dal torpore, prima di essere ricondotta tra i suoi simili, Protesi fu istruita sull'uso degli arti. Ma le si impose, come pagamento del dono ricevuto, di non svelare l'origine di questo dono così singolare. Protesi promise solennemente, e fu rimandata presso i suoi simili. Gli dei l'abbandonarono al suo destino.
Credeva che sarebbe stata accolta come una dea, onnipotente per i nuovi doni ricevuti, ma rimase ben presto delusa. Additata come una mutazione mostruosa della natura più abbietta, fu relegata presso il bosco sacro alle ninfe, in modo che si potesse purificare, vergine, consacrandosi a quanto la Natura prodiga ci fornisce nella frescura delle selve. Sola rimase per lunghi mesi trovando unico diletto nelle canne, che ora riusciva a divellere dal terreno, a tagliare con cura, a riunire in fasci ordinati per altezza. In esse soffiava e traeva melodie dolcissime.
Attirato dal suono, un giovane di cui rimane ancor oggi sconosciuto il nome, la avvicinò e l'amò. Noi tutti siamo figli di Protesi.

(1) Costituisce l’incipit del saggio Protesi, ovvero la metamorfosi, in "Iride", anno IX, n.19, dicembre 1996, pp.703 sgg.

Sunday, November 19, 2017

Il mezzo è il messaggio


Marshall McLuhan è stato uno dei più importanti analisti delle comunicazione di massa, dall'avvento della stampa sino al mondo della televisione. Il suo saggio più importante è stato Understanding Media (1964) (tradotto in italiano nel 1967 con il titolo Gli strumenti del comunicare). Il suo primo saggio (1951) è The Mechanical Bride (La sposa meccanica)

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« Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un'azienda privata o dare in monopolio a una società l'atmosfera terrestre »
(Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare).

Intervista a Marshall McLuhan

Monday, October 14, 2019

Il mito secondo Lévi-Strauss

DIDIER ERIBON:. Le vorrei farle una domanda semplice: che
cos'è un mito?

CLAÙDE LÉVI-STRAUSS: È tutto il contrario di una domanda
semplice, perché si può rispondere in parecchi modi. Se
lo chiede a un indiano americano ci saranno forti probabilità
che risponda: una storia dei tempi in cui gli uomini e `
gli animali non erano ancora distinti. Questa definizione
mi sembra molto profonda, perché, malgrado le nuvole
d'inchiostro sollevate dalla tradizione ebraico-cristiana p
mascherarla, nessuna situazione mi pare più tragica, più
offensiva per il cuore e per l'intelligenza, di quella
di un'umanità che coesiste con altre specie viventi su una terra
di cui queste ultime condividono l'usufrutto e con le
quali non può comunicare. Si comprende come i miti rifiutino
di considerare questo vizio della creazione come originale;
che essi vedano nel'la sua comparsa l'evento inaugurale
della condizione umana e della sua debolezza. Si potrebbe
anche cercare di definire il mito per via di opposizione
ad altre forme della tradizione orale: leggenda, racconto...
Ma queste distinzioni non sono mai nette. Forse
queste forme non hanno esattamente lo stesso ruolo nelle
culture, ma sono prodotte dallo stesso modo di pensare, e
l'analista non può impedirsi di considerarle insieme. In
che cosa consiste questo modo di pensare? L'ho detto, al
contrario del metodo cartesiano, in un rifiuto di scomporre
la difficoltà, nel non rassegnarsi mai a risposte parziali,
nell'aspirare a spiegazioni che circoscrivano la totalità dei
fenomeni. È proprio del mito, messo di fronte a un problema,
di pensarlo 'come l'omologo di altri problemi che si
pongono su altri piani: cosmologico, fisico, morale, giuridico,
sociale, eccetera. E di rendere conto di tutti insieme.

Questo spiega i giochi ad incastro che lei mette in evidenza.

Ciò che un mito dice in un linguaggio che sembra adatto a
una certa sfera si diffonde in tutte le sfere in cui potrebbe
porsi un problema dello stesso tipo formale.

Claude Lévi-Strauss e Didier Eribon, Da vicino e da lontano, Milano : Rizzoli, 1988, pp. 193-4

Wednesday, November 8, 2017

Il pensiero selvaggio e il bricolage

Il “pensiero selvaggio che non è, per noi, il pensiero dei selvaggi, né quello di un’umanità primitiva o arcaica, bensì il pensiero allo stato selvaggio, distinto dal pensiero educato o coltivato proprio in vista di un rendimento”. (Claude Levi-Strauss, Il pensiero selvaggio [1])

”esistono ancora alcune zone in cui il pensiero selvaggio si trova, come le specie selvatiche, relativamente protetto: è il caso dell’arte, cui la nostra civiltà accorda lo statuto di parco nazionale con tutti i vantaggi e gli inconvenienti che comporta una formula tanto artificiale; e soprattutto è il caso di tanti settori della vita sociale ancora incolti ove, per indifferenza o per impotenza, e senza che il più delle volte sappiamo il perché, il pensiero selvaggio continua a prosperare. (2)

“La poesia del bricolage nasce anche e soprattutto dal fatto che questo non si limita a portare a termine, o ad eseguire, ma «parla», non soltanto con le cose, […], ma anche mediante le cose: raccontando attraverso le scelte che opera tra un numero limitato di possibili, il carattere e la vita del suo autore. Pur senza mai riuscire ad adeguare il suo progetto, il bricoleur vi mette sempre qualcosa di sè.”

Claude Levi-Strauss parla de “l’esistenza di due diverse forme di pensiero scientifico, funzioni certamente non di due fasi diseguali dello sviluppo dello spirito umano, ma dei due livelli strategici in cui la natura si lascia aggredire dalla conoscenza scientifica: l’uno approssimativamente adeguato a quello della percezione e dell’intuizione, l’altro spostato di piano; come se i rapporti necessari che costituiscono l’oggetto di ogni scienza, neolitica o moderna che sia, fossero raggiungibili attraverso due diverse strade, l’una prossima alla intuizione sensibile, l’altra più discosta.” (3)

“Proprio per sua essenza, questa scienza del concreto doveva limitarsi a risultati diversi da quelli destinati alle scienze esatte e naturali, ma non per questo essa fu meno scientifica e i suoi risultati meno reali: questi ultimi anzi, impostisi diecimila anni prima degli altri, rimangono ancora e sempre il sostrato della nostra civiltà. D’altronde, sopravvive fra noi una forma di attività che, sul piano tecnico, ci consente di renderci conto abbastanza bene delle caratteristiche, sul piano speculativo, di una scienza che preferiamo chiamare ’primaria’ anziché primitiva: questa forma è di solito designata col termine bricolage. […] Oggi per bricoleur s’intende chi esegue un lavoro con le proprie mani, utilizzando mezzi diversi rispetto a quelli usati dall’uomo di mestiere. Ora, la peculiarità del pensiero mitico sta proprio nell’esprimersi attraverso un repertorio dalla composizione eteroclita che, per quanto esteso, resta tuttavia limitato: eppure di questo repertorio non può fare a meno di servirsi, perché non ha niente altro tra le mani. Il pensiero mitico appare così come una sorta di bricolage intellettuale, il che spiega le relazioni che si riscontrano tra i due. Come il bricolage sul piano tecnico, la riflessione mitica può ottenere sul piano intellettuale risultati veramente pregevoli e imprevedibili;” (4)

“Vale la pena di approfondire ulteriormente questo paragone, perché ci facilita l’accesso ai rapporti reali esistenti fra i due tipi di conoscenza scientifica che abbiamo ora distinti. Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso, e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via ‘finito’ di arnesi e di materiali, peraltro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né d’altronde con nessun progetto particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i residui di costruzioni e di distruzioni antecedenti. L’insieme dei mezzi del bricoleur non è quindi definibile in base a un progetto (la qual cosa presupporrebbe, almeno in teoria, l’esistenza di tanti complessi strumentali quanti sono i generi di progetto, come accade all’ingegnere); esso si definisce solamente in base alla sua strumentalità, cioè, detto in altre parole e adoperando lo stesso linguaggio del bricoleur, perché gli elementi sono raccolti o conservati in virtù del principio che ‘ possono sempre servire ’. Simili elementi sono dunque specificati solo a metà: abbastanza perché il bricoleur non abbia bisogno dell’assortimento di mezzi e di conoscenze di tutte le categorie professionali, ma non tanto perché ciascun elemento sia vincolato ad un impiego esattamente determinato. Ogni elemento rappresenta un insieme di relazioni al tempo stesso concrete e virtuali: è un operatore, ma utilizzabile per una qualsiasi operazione in seno a un tipo. (5)

“Osserviamolo all’opera (ci si riferisce al bricoleur ndr): per quanto infervorato dal suo progetto, il suo modo pratico di procedere è inizialmente retrospettivo: egli deve rivolgersi verso un insieme già costituito di utensili e di materiali, farne e rifarne l’inventario, e infine, soprattutto, impegnare con essa una sorta di dialogo per inventariare, prima di sceglierne una, tutte le risposte che l’insieme può offrire al problema che gli viene posto. Egli interroga tutti quegli oggetti eterocliti che costituiscono il suo tesoro, per comprendere ciò che ognuno di essi potrebbe ‘significare’, contribuendo così alla definizione di un insieme da realizzare che alla fine, però, non differirà dall’insieme strumentale se non per la disposizione interna delle parti. Quel blocco cubico di quercia potrebbe servire da bietta per rimediare all’insufficienza di un asse di abete, oppure da piedistallo, cosa che permetterebbe di valorizzare la venatura e la levigatezza del vecchio legno. In un caso sarà estensione, nell’altro materia. Ma queste possibilità vengono sempre limitate dalla storia particolare di ciascun pezzo e da quanto sussiste in esso di determinato, dovuto all’uso originale per cui era stato preparato o agli adattamenti subiti in previsioni di altri usi. Come le unità costruttive del mito, le cui possibilità di combinazione sono limitate dal fatto di essere ricavate da una lingua dove possiedono di già un senso che ne riduce la libertà di impiego, gli elementi che il bricoleur raccoglie e utilizza sono ‘previncolati’. D’altra parte la decisione dipenderà dalla possibilità di permutare un altro elemento nella funzione vacante, così che ogni scelta trarrà seco una riorganizzazione completa della struttura che non sarà mai identica a quella vagamente immaginata né ad altra che avrebbe potuto esserle preferita. In certo qual modo anche l’ingegnere interroga, poiché anche per lui esiste un ‘interlocutore’ , determinato dal fatto che i mezzi, le capacità e le conoscenze in suo possesso non sono mai illimitati , e che, in questa forma negativa, egli urta contro una resistenza con la quale gli è indispensabile venire a patti. Si potrebbe essere tentati di dire che l’ingegnere interroga l’universo, mentre il bricoleur si rivolge a una raccolta di residui di opere umane , cioè a un insieme culturale di sottordine. […] la caratteristica del pensiero mitico, come del bricolage sul piano pratico, è di elaborare insiemi strutturati, non direttamente per mezzo di altri insiemi strutturati, ma utilizzando residui e frammenti di eventi […] il pensiero mitico, da vero bricoleur, elabora strutture combinando insieme eventi, o piuttosto residui di eventi, mentre la scienza, che ‘cammina’ in quanto si instaura, crea, sotto forma di eventi, i suoi strumenti e i suoi risultati, grazie alle strutture che fabbrica senza posa e che sono le sue ipotesi e le sue teorie. Ma non equivochiamo: non si tratta di due stadi o di due fasi dell’evoluzione del sapere, poiché i due modi di procedere sono ugualmente validi.”(6)

1) Claude Levi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Milano : il Saggiatore, 2003, pag. 240
2) idem, pag. 240
3) idem, pag. 28
4) idem, pag. 29-30
5) idem, pag. 30-31
6) idem, pag. 31-34

Sunday, October 18, 2020

Protesi, ovvero la metamorfosi

 Miti postindustriali  di Vittorio Marchis


Protesi, ovvero la metamorfosi (1)
"La natura è in grado di compiere cose straordinarie senza l'intervento degli spiriti maligni. Se la natura, poi, è aiutata dal sapere e dall'ingegnosità umani, allora i risultati saranno quasi incredibili per gli inesperti" (Ruggero Bacone, I segreti dell'arte e della natura, cap. IV)
Si racconta che un tempo, in un paese oggi scomparso e ormai ridotto a semplice landa desolata, arida e priva di ogni scrittura della passata storia, vivesse un popolo di uomini e donne supremamente intelligenti. Questi uomini e queste donne, bellissimi, non avevano bisogno di lavorare perché il loro pensiero era sufficiente a far sì che le risorse naturali bastassero non solo alle necessità, ma soprattutto al loro diletto. Conoscevano il piacere dei sei sensi e anche il procreare era ridotto a puro linguaggio, a trasmissione di emozioni e simpatia. Si è già detto che questi uomini e queste donne non avevano bisogno di lavorare. E perciò essi non avevano né mani né braccia.
Chi argomentasse, con il nostro modo di pensare, che essi erano più simili agli animali che a noi sbaglierebbe di grosso, perché in verità la loro prossimità agli dei era quanto noi non possiamo nemmeno immaginare.
Un giorno, una giovane di nome Protesi ebbe la ventura di essere trasportata dal mare, a causa di una tempesta, sulla spiaggia di un'isola abitata dagli uomini, ossia da esseri pari a quanti raccontano e tramandano questa storia. Quando, dopo un lungo sonno, Protesi si svegliò, trovò dinanzi a sé uomini e donne ben più brutti e rozzi di lei. In fondo anch'essi avevano una testa, un torso, un ombelico, due
gambe; sorridevano e muovevano le labbra; si toccavano e si facevano segni. Ma avevano qualcosa che li rendeva diversi: due articolazioni, simili alle gambe, ma più sottili, dotate di estremità ramificate e estremamente mobili si dipartivano dalle spalle, leggermente al di sopra e a fianco delle mammelle. Usavano questi rami per afferrare le pietre, per spezzare le foglie degli alberi, per staccare gli acini dai grappoli e per disporli in file ordinate, per tracciare insulsi segni sulla sabbia. Ciò che più impressionò Protesi fu il vedere un vecchio, ormai cieco, usare le mani (così le chiamavano) per tamburellare su alcune canne, producendo in questo modo suoni mai ascoltati, strani, ma desiderabili. E fu colta da invidia.
Pregò allora gli dei che la facessero ritornare a casa e la rendessero simile agli uomini che aveva incontrato sull'isola. La richiesta parve agli dei alquanto strana, alcuni di essi rimasero dubbiosi, altri la ritennero completamente stupida, ma poiché le preghiere di Protesi erano insistenti e continue, e poiché gli dei si lasciano commuovere dalle loro creature, finalmente si convinsero nell'esaudire le preghiere della bellissima giovane. Nella fucina dove si forgiano tutte le cose del mondo, con i metalli più preziosi vennero fatti preparare due arti lucenti e mobilissimi, ciascuno terminante con cinque ramificazioni prensili. Dopo che gli arti furono ultimati, gli dei rapirono Protesi, ed immersala in un torpore soavissimo le applicarono gli arti esattamente a somiglianza di quelli ammirati negli uomini e nelle donne dell'isola. Quando si fu risvegliata dal torpore, prima di essere ricondotta tra i suoi simili, Protesi fu istruita sull'uso degli arti. Ma le si impose, come pagamento del dono ricevuto, di non svelare l'origine di questo dono così singolare. Protesi promise solennemente, e fu rimandata presso i suoi simili. Gli dei l'abbandonarono al suo destino.
Credeva che sarebbe stata accolta come una dea, onnipotente per i nuovi doni ricevuti, ma rimase ben presto delusa. Additata come una mutazione mostruosa della natura più abbietta, fu relegata presso il bosco sacro alle ninfe, in modo che si potesse purificare, vergine, consacrandosi a quanto la Natura prodiga ci fornisce nella frescura delle selve. Sola rimase per lunghi mesi trovando unico diletto nelle canne, che ora riusciva a divellere dal terreno, a tagliare con cura, a riunire in fasci ordinati per altezza. In esse soffiava e traeva melodie dolcissime.
Attirato dal suono, un giovane di cui rimane ancor oggi sconosciuto il nome, la avvicinò e l'amò. Noi tutti siamo figli di Protesi.

(1) Costituisce l’incipit del saggio Protesi, ovvero la metamorfosi, in "Iride", anno IX, n.19, dicembre 1996, pp.703 sgg.

Thursday, October 4, 2012

History of the World in 100 Objects

Even if the BBC programs (and the book) by Neil MacGregor tell histories of mostly ancient objects (Neil MacGregor is director of the British Museum, London) by listening (or reading) some of them is possible to have an idea for preparing "your" story of the selected Thing.

The Book and the 100 Objects in Wikipedia

BBC & the British Museum: A History of the Worls (download mp3 and transcript)

An example: Episode 100: A portable solar energy panel lamp.
Episode 100 transcript
Testo in italiano


LAMPADA SOLARE E ACCUMULATORE
Prodotti a Shenzhen, Guangdong, Cina
2010 D.C.
Come dovrebbe concludersi la nostra storia del mondo? Con un oggetto che riesca a darci un'idea del nostro pianeta nel 2010, che esprima i timori e le aspirazioni dell'umanità, che condensi un'esperienza universale e al tempo stesso abbia un'importanza pratica per il maggior numero possibile di persone. Già, ma quale oggetto soddisfa questi requisiti?
Col senno di poi sarebbe tutto molto più semplice. Sono sicuro che nel 2110 il direttore del British Museum avrà un'idea chiarissima dell'oggetto che avremmo dovuto acquisire per mantenerci in sintonia col nostro tempo, e sorriderà - o storcerà il naso – davanti a quello che invece abbiamo scelto. Per quella data i fatti o gli sviluppi storici che hanno plasmato i primi decenni del ventunesimo secolo saranno ormai evidenti. Ma noi siamo costretti a decidere nell'ignoranza cui ci condanna il presente. Ci siamo chiesti se fosse il caso di scegliere un oggetto proveniente dall'Antartide, cioè dall'ultimo luogo in cui si sono insediati gli uomini, la tappa finale del loro esodo dall'Africa. Se riusciamo a sopravvivere in quelle condizioni è solo grazie all'equipaggiamento che siamo stati in grado di mettere a punto, e quindi una tuta tecnica progettata per vivere e lavorare in Antartide esprimerebbe alla perfezione il paradosso dell'Homo faber: le cose che fabbrichiamo ci permettono di dominare il nostro ambiente, ma a nostra volta da quelle cose finiamo per essere dominati e dipendere. In ogni caso, come apice dell'inventiva umana, un abito progettato per il luogo più inospitale della terra e indossabile al massimo da alcune migliaia di persone sarebbe stato una scelta un po' miope.
Uno dei fenomeni storici più interessanti degli ultimi decenni del secolo scorso è stato la migrazione di milioni di persone verso città raggiunte, a volte, superando distanze enormi. I migranti hanno cambiato la demografia del mondo, hanno creato qualcosa che in questa forma non era mai esistito: la città globale, dove vivono gomito a gomito, e in relativa armonia, persone provenienti da ogni continente. A Londra, per esempio, si parlano oggi più di 300 lingue diverse. Ebbene, a prescindere da quanto si lasciano alle spalle, i migranti portano sempre con sé la loro cucina; da questo punto di vista l'umanità non è mai cambiata. Perciò, sulle prime, avevamo pensato che il nostro centesimo oggetto potesse essere una serie di utensili da cucina, che ci avrebbero permesso di cogliere la stupefacente varietà delle ricette — e quindi delle culture gastronomiche — che oggi coesistono nelle grandi città del mondo. Ma in questa storia ci siamo diffusamente occupati degli oggetti che usiamo per cucinare, bere e mangiare, e siamo tornati più volte sull'espansione delle città nell'arco dei millenni: l'assortimento internazionale di vasi rotti trovati a Kilwa (capitolo 60) ci ha raccontato come già 1000 anni fa gli scambi culturali interessassero anche la cucina. Dunque, niente utensili.
Oggi, tuttavia, una sola attività umana è veramente globale: il gioco del calcio. L'avvenimento più seguito del 2010 è stato il mondiale in Sudafrica. Come abbiamo visto nel capitolo 38, quando abbiamo parlato della cintura cerimoniale per il gioco della palla, lo sport è sempre servito ad aggregare le comunità, ma oggi sembra che sia andato oltre, unificando il mondo: campioni provenienti dall'Africa occidentale giocano in squadre inglesi che appartengono a uomini d'affari russi; le copie delle loro maglie vengono prodotte in Asia e vendute in Sudamerica. È vero, la maglia di una squadra di calcio può aiutarci a descrivere il presente nel suo aspetto più lieve, e infatti ne abbiamo comprata una per le nostre collezioni: ma del futuro che abbiamo davanti forse non ci dice molto.
Alla fine abbiamo deciso che il centesimo oggetto doveva avere a che fare con la tecnologia, dal momento che ogni anno nuovi dispositivi cambiano le nostre relazioni personali e il nostro modo di lavorare. Un ottimo esempio di quanto stiamo dicendo è il telefono cellulare o, meglio ancora, lo smartphone. Ha più o meno le stesse dimensioni delle tavolette di argilla mesopotamiche, che sono state il primo tentativo dell'umanità di comunicare a distanza, e da quando esiste il nostro modo di scrivere è cambiato: il linguaggio degli SMS è la nuova scrittura cuneiforme. Il cellulare collega all'istante milioni di persone in tutto il mondo, raduna folle enormi come nessun tamburo di guerra è mai riuscito a fare, e se può accedere a Internet ci apre mondi di conoscenza che gli illuministi neppure avrebbero immaginato. Oggi, nelle società avanzate, la vita senza il cellulare è inimmaginabile. Ma il telefono dipende dall'energia elettrica: in sua assenza, è inutile.
Ecco perché il nostro centesimo oggetto è un generatore di elettricità, che potrebbe consentire a un miliardo e 600 milioni di persone, prive di accesso alla rete elettrica, l'energia necessaria a entrare nel mondo delle relazioni globali. Ma questo oggetto può fare molto di più: può offrire a quelle stesse persone un controllo avanzato dell'ambiente, quindi la possibilità di vivere in modo diverso. Che cosa sarà mai questo oggetto misterioso? vi domanderete. È una lampada a energia solare.
Quello che abbiamo acquistato è in realtà un piccolo kit di cui fanno parte una lampada di plastica alimentata da una batteria ricaricabile da 6 volt e, separatamente, un piccolo pannello fotovoltaico che funge da accumulatore. La lampada ha una maniglia e le dimensioni di una grossa tazza da caffè, mentre il pannello assomiglia a un portafotografie d'argento non tanto grande, di quelli che teniamo sulla scrivania o sul comodino. Se il pannello viene esposto per 8 ore alla luce del sole, la lampada può fornire fino a 100 ore di luce bianca costante. Al massimo della carica, è in grado di illuminare un'intera stanza – quanto basta per consentire a una famiglia senza accesso alla rete elettrica di vivere in maniera del tutto nuova. L'intero kit è in vendita a circa 2250 rupie (45 dollari), anche se un semplice faro costa 499 rupie (10 dollari). Ma, una volta pagato, ha bisogno esclusivamente del sole.
I pannelli fotovoltaici convertono la luce solare in elettricità. Se riuscissimo a servircene con maggiore efficacia, tutti i nostri problemi energetici sarebbero risolti. La terra riceve in un'ora più energia solare di quanta non ne consumi in un anno tutta la popolazione mondiale, e i pannelli fotovoltaici sono uno dei modi più semplici e pratici di imbrigliare l'energia illimitata del sole trasformandola in energia pulita, affidabile e a basso costo.
I pannelli sono costituiti da celle di silicio connesse da una rete metallica e racchiuse in involucri di plastica e vetro. Appena esposte alla luce del sole, le celle generano elettricità, che a sua volta va ad alimentare una batteria ricaricabile. Il kit impiega molte nuove tecnologie che negli ultimi tempi hanno trasformato la nostra vita: in buona parte è fatto di plastica, mentre l'accumulatore dipende dal silicio, comepersonal computer e telefoni cellulari. Anche le batterie ricaricabili sono un'innovazione recente. Insomma, questa fonte di energia apparentemente low-tech ha in realtà elementi molto sofisticati.
Tornando alla nostra lampada, è una soluzione elegante e a basso costo, che consente di soddisfare le necessità energetiche di base: produce infatti una modica quantità di energia non solo economica, ma anche durevole. L'aggettivo «modica» è importante. Anche se il silicio costa poco, e la luce del sole è gratuita, pannelli solari di dimensioni tali da generare le enormi quantità di energia elettrica consumate ogni ora dai paesi ricchi avrebbero un costo proibitivo. In sostanza, ci troviamo di fronte al paradosso di una tecnologia costosa per i ricchi e a buon mercato per i poveri.
Molte fra le popolazioni più povere al mondo vivono alle latitudini più soleggiate. Per questo il fotovoltaico è così importante in Asia meridionale, nell'Africa subsahariana e nelle aree del continente americano vicine ai tropici. In una famiglia povera, un numero anche piccolo di volt può fare la differenza. Se si vive ai tropici senza elettricità, il giorno finisce presto. All'illuminazione notturna provvedono candele o lampade a cherosene, ma le candele rischiarano appena e non durano, mentre il cherosene è costoso (consuma in media il 20 per cento del reddito rurale in Africa) ed emette fumi tossici. Le lampade al cherosene e le stufe economiche provocano fino a 3 milioni di morti ogni anno, per la maggior parte donne, perché i fumi sono particolarmente pericolosi negli spazi chiusi, cioè dove si cucina. Inoltre le case sono quasi sempre in legno o in altri materiali naturali altamente infiammabili, quindi esposte al rischio di incendi.
L'avvento dei pannelli solari fotovoltaici potrebbe cambiare quasi ogni aspetto di questa esistenza domestica. La luce gratuita permetterebbe ai bambini – e agli adulti – di studiare la sera, migliorando la propria istruzione e pertanto il proprio futuro. La casa diventerebbe più sicura. Pannelli più grandi potrebbero fornire il calore per cucinare, eliminando i pericoli dei fumi e del fuoco. Ma potrebbero anche fornire energia a frigoriferi, televisioni, computer e pompe idriche, portando nei villaggi gran parte dei beni che oggi si vanno a cercare in città.
Ovviamente il nostro piccolo kit non ha tutti questi poteri, ma insieme alla luce offre qualcosa di molto significativo. Sull'accumulatore c'è un simbolo universalmente noto: la sagoma di un telefono cellulare. Questo strumento ha trasformato da solo l'Africa e l'Asia rurali, avvicinando le comunità, garantendo l'accesso all'informazione sul lavoro e sui mercati, fornendo la base per le nuove reti bancarie informali, che funzionano splendidamente: insomma, ha reso possibile avviare attività economiche anche in assenza di investimenti.
Da un recente studio sui pescatori di sardine dello Stato indiano del Kerala si intuisce che cosa comporti l'introduzione del cellulare in una comunità. Da quando lo possiedono, i pescatori fanno un lavoro molto più sicuro (grazie al meteo in tempo reale) e molto più redditizio: l'accesso alle informazioni sul mercato ha aumentato i profitti, in media, dell'8 per cento. In un altro studio sull'uso del cellulare in Asia meridionale si legge che, con la sua introduzione, il tenore di vita di tutta una serie di soggetti – lavoratori a giornata, contadini, prostitute, conduttori di risciò, bottegai – è sensibilmente migliorato. I pannelli solari servono anche a questo, a rendere il cellulare accessibile a tutti, perfino a chi vive nelle comunità rurali più povere.
Una tecnologia che porta tanti e tali benefici in termini di salute, sicurezza, istruzione, comunicazione e affari ha un che di miracoloso. I pannelli solari non richiedono infrastrutture troppo costose, e il modesto investimento iniziale può essere coperto da una delle tante forme di microfinanziamento oggi disponibili. Una lampada come la nostra, di fatto, si può pagare a rate in uno o due anni con i soli risparmi del cherosene. Economica, pulita, verde: questa tecnologia è alla portata di un numero sempre maggiore di persone, e offre enormi opportunità alle fasce più disagiate.
Ma a beneficiare della sua diffusione potrebbe essere anche l'ambiente: l'energia solare è infatti una risposta alla dipendenza da combustibili fossili, fra le cause principali del riscaldamento globale.
È una possibilità già implicita nelle parole di colui che, più di ogni altro, dobbiamo ringraziare – o accusare – di aver introdotto l'energia elettrica nelle nostre vite: Thomas Edison. È una vera sorpresa scoprire che proprio l'inventore della lampadina, e di molti altri prodotti legati all'elettricità, sia stato un profeta dell'energia rinnovabile. Nel 1931 Edison arringava così i suoi amici Henry Ford e Harvey Firestone: «Fosse per me, investirei tutto il mio denaro nel sole e nell'energia solare. Che fonte di energia! Spero solo di non dover aspettare che il petrolio e il carbone si esauriscano, prima di riuscire a sfruttarla».
L'energia solare sembra un epilogo soddisfacente di questa storia globale. Garantisce alla popolazione le opportunità cui abbiamo accennato sopra, e lo fa senza danneggiare il pianeta. È un sogno del futuro nel quale riecheggia il più profondo e universale dei miti umani: quello del sole che dà la vita. Ecco, la nostra lampada incarna una versione più modesta di quel mito, con Prometeo che, più che rubare il fuoco, dà una mano in cucina.
In fondo abbiamo sempre sognato di catturare il sole, e quando abbiamo imparato a conservare sotto vuoto i frutti della bella stagione, in modo che il calore e il nutrimento dell'estate ci accompagnassero nel corso dell'inverno, abbiamo fatto un piccolo passo in quella direzione. Nel capitolo 1 abbiamo visto il sacerdote egizio Hornedjitef portare con sé, nella tenebra dell'oltretomba, uno scarabeo, simbolo magico della forza rigeneratrice del sole. Oggi, per rischiararsi la via, Hornedjitef sceglierebbe forse una lampada a energia solare. (in Storia del mondo in 1000 oggetti, edizione italiana, Milano : Adelphi, 2012)

Monday, November 4, 2019

Metron, la misura

Pes romanus (= 294,7 mm circa)

Nel corso di una nota orazione riportata dallo storico Dione Cassio, Mecenate elenca le nuove istituzioni della monarchia di Augusto: tra queste figura l'unificazione dei pesi e delle misure di lunghezza localmente adoperate con quelle di Roma. Il pes utilizzato dall'epoca di Ottaviano fino a Vespasiano fu impresso su due congii di bronzo che ancora oggi si possono vedere alla Famesina. Si tratta di uno degli aspetti meno noti del fenomeno della romanizzazione e dei complessi rapporti tra centro e periferia che avrebbero caratterizzato la storia sociale e politica di Roma. Lo strumento che esprimeva questa grandezza era la regula una sbarretta di bronzo a sezione quadrata della lunghezza approssimativamente di un pes. Le unità di misura localmente usate dovevano essere comparate con quella ufficialmente adoperata a Roma: magistrati urbani, aediles, praefectus urbis e praefectus civitatis nelle province occidentali, zugostates e xetronomoi nelle province orientali, avrebbero provveduto a verificare il valore dei campioni di lunghezza e peso adottati nei mercati locali. [...] Ritrovare la presenza del pes romanus nelle planimetrie delle case di Pompei è difficile: innanzitutto gran parte delle abitazioni che noi vediamo sorsero durante il lungo periodo di occupazione osca; in secondo luogo non possono non essere considerati i vincoli con cui la geometria costruttiva deve solitamente fare i conti: strade, paesaggio, edifici preesistenti, comportamento dei materiali utilizzati. [...] Una breve ma significativa campagna di rilievo planimetrico della Casa dei Polybii conferma quanto è stato sopra congetturato. Manca assolutamente un'impianto geometrico regolare degli spazi e ricercare un canone nella proporzione delle forme dei locali sarebbe un'operazione artificiosa e priva di significato. I vani non risultano simmetrici né a lati paralleli; i colonnati non rispettano alcuna regola negli interassi; le luci di apertura verso l'esterno hanno altezza variabile dal suolo da locale a locale; la larghezza dei passaggi come pure lo spessore dei muri non presenta caratteristiche di uniformità e di regolarità. Anche le misure effettuate sugli impianti idraulici non hanno evidenziato alcuna regola geometrica nel loro impianto né planimetrico né spaziale. È invece altrove che la presenza del pes e dei suoi sottomultipli si dichiara in maniera inequivocabile sì da affermare che, a dispetto della planimetria dei locali (condizionata invero da altri fattori), gli artigiani a Pompei (e per analogia nel mondo romano) usavano correntemente il pes e i suoi sottomultipli: il digitus (1/16 del piede), il palmus (1/8 del piede)  e l'uncia ((1/12 del piede). [...] Ancor più sorprendente è la corrispondenza di un altro manufatto all'esigenza di usare l'uncia o il digitus. L'osservazione delle dimensioni funzionali delle lamine bronzee da serratura (sia per infissi, sia per mobilia), e soprattutto le dimensioni degli interassi tra i fori per le viti (o chiodi) di fissaggio delle medesime al corpo ligneo del battente rispondono a misure standard nella serie del digitus e dell'uncia come dei loro multipli. La spiegazione trova una giustificazione che ancora una volta si fonda sui processi, spesso taciti, dei trasferimenti del sapere tecnico; quando due diverse culture si incontrano ed hanno ciascuna il proprio linguaggio ed i propri protocolli, bisogna trovare punti di incontro obiettivi che non diano luogo a fraintendimenti. Quando un falegname preparava un mobile doveva necessariamente prevederne una serratura con il suo alloggiamento: questo manufatto bronzeo, pur essendo il sistema di produzione completamente artigianale, era prodotto da un altro artigiano, il fabbro, a cui bisognava "trasferire" una specifica tecnica sintetica e riproducibile sul manufatto medesimo. E' chiaro come una semplice standardizzazione dimensionale potesse facilitare sia il lavoro del fabbro sia quello del falegname. Questo «teorema» che con un pizzico di humour potrebbe essere chiamato «della serratura», trova notevoli applicazioni nell'esame dimensionale dei manufatti e dei prodotti artigianali dell'antichità e dimostra che le misure sono necessarie quando bisogna interfacciare sistemi di natura differente, tra culture diverse, normalmente separate da ragioni
di natura sociale piuttosto che strettamente tecnologica. [...]

G. De Pasquale e V. Marchis, Alcune considerazioni sul Pes Romanus, Estratto da ISTITUTO E MUSEO DI STORIA DELLA SCIENZA, FIRENZE, "NUNCIUS - ANNALI DI STORIA DELLA SCIENZA", Anno XI, 1996, fasc. 2
(il testo completo è disponibile sul portale della didattica)

Wednesday, November 30, 2016

La storia dei colori

Risultati immagini per manlio brusatin storia dei colori


2000
Piccola Biblioteca Einaudi Ns
pp. 133 
€ 15,00
ISBN 9788806153441

"Il colore è la forma delle cose, il linguaggio della luce e delle tenebre" (Hofmannsthal), ma soprattutto un discorso prevedibile e semplice e cosí distintamente complicato, aggiunge Brusatin che, in questa breve Storia dei colori ci dà una brillante esposizione, ricca di divagazioni, attenta agli apporti della fisica, e al ruolo essenziale svolto nei secoli dalla pittura.

INDICE

I. Senso e corpo dei colori
II. Il colore come figura e destino
III. Colori e forma
IV. Disegno, colore, pittura
V. il colore e il suo ordine
VI. I colori azioni e passioni
VII. il colore del colore
VIII. Colore e colore

Bibliografia

Si parla di: Leonardo e Goethe, di Klee e di Wittgenstein, di Kandinski e Malevic, di Melville e di Scriabin, di Newton ed Eulero, e di molti altri ancora.

Saturday, November 21, 2015

... sulla inevitabile digitalizzazione delle cose

Ecco un articolo scritto da Eugenio Battisti per "Gran Bazar" nel 1985.

Breve e non convinto lamento 
sulla inevitabile digitalizzazione delle cose

Mi dicono che si sono già fatti esperimenti per trasmettere, via cavo, non informazioni, "ma cose"; cioè fasci di elettroni con relativo programma per ricostruire le loro aggregazioni; d'altra parte tutti questi mirabilia li abbiamo già visti ai tempi della nostra infanzia nelle illustrazioni coloratissime dei giornaletti, tipo il Cartoccino, oggi venerati, raccolti nei musei, ma forse ma, studiati come profezie Gli effetti strepitosi della vernice contro la gravità, da spalmarsi sotto le scarpe, in modo da eliminare macchine rd arai, chi li ha dimenticati? Ma quand'è che verranno messi in funzione?
Che cosa ha a che fare, tutto ciò, con le cose e le immagini? Ahimè, moltissimo. Infittì il processo di smaterializzazione, condotto dall'arte con­temporanea e su cui esiste ormai una bibliografia critica cospicua, dopo l'arte concettuale che sembrava costituirne una punta estrema, è conti­nuato al di sotto del revival figurativo e narrativo, ambiguamente librato fra simbolismo, espressionismo e fumetti, che riempie di nuovo le case di quadri da appendere in salotto. È passato in mano dei tecnici, ma si badi: tecnici pericolosi, sperimentatori di nuovi sistemi TV, che hanno portato ultimamente ai grandi panorami circolari animati da ologrammi, programmatori ad altissimo livello, che dopo aver incominciato ad eliminare le biblioteche per sostituirle con banche dati stanno ora saggiando le possibilità (ancora imprevedibili) connesse con la digitalizzazione delle immagini e delle strutture pluridimensionali; ragazzi che si sono abituati a giocare di fronte ad uno scherano, invece clic con giocattoli meccanici o di plastica. II prossimo passo sarà inevitabilmente una serie di macchine utensili invisibili che agiranno tramite forze di cui sarà ne­gata del tutto all'uomo la percezione, e di cui vedremo solo gli effetti. Macchine che sostituiranno, anche nella mitologia collettiva, gli angioli. Molto presto, anche, scomparirà del tutto il rumore, appena si produrranno a basso costo gli apparecchi già usati per le grandi macchine e che lo annullano mediante interferenze di onde sonore. L'elettricità, dominando rotta da sola, ricavata dal sole o anche solo da un lieve barlume, diventerà di nuovo, come ai suoi inizi, pura magia.
Essendo questo il contesto delle prossime settimane, la giustapposizione dei termini: cose e immagini, non può essere musa, a mio parere, né come antitesi, né come coppia parallela ma conte compiuta identità: l'immagine sarà la cosa e la sostituirà: non ci saranno più attori, ma il loro doppio olografico e televisivo, inesistente e convincente, costruito con lavoro snervante mediano rotazioni avanti e indietro di un videodisco, ricavato da filmati che ritraggono un uomo o una donna in tutti i loro atteggiamenti possibili. E questo repertorio sari montato a volontà, ricavandolo da una banca dati nel momento della perfomance, che ovviamente sarà programmata mediante una tastiera o  più semplicemente mediante un co­mando ad alta voce. Non avremo in questa forma Carmelo Bene, ma il suo successore generazionale. Per assurdo, sulla base degli esperimenti già condotti dal MIT, in cale modo saranno programmati anche i grandi incontri politici fra oriente ed occidente, E non c'è speranza che ciò non accada. Lo si è visto, senza che si potesse resistere, durante le grandi consultazioni elettorali, i cui risultati non sono stati più consegnati alla storia dai voti, ma dai pollls. Si è giunto al punto di celebrare l'elezione d'un presidente americano prima che gli elettori andassero a votare nella parte ovest del paese; e gli errori sono talmente minimi da rendere inutili gli spogli delle schede, anzi viene il sospet­to addirittura che proprio per le incongruenze con le previsioni si siano potuto scoprire in qualche caso brogli elettorali, mentre questi avvenivano. La stessa nostra biografia umana e sociale è ridotta ad una serie di numeri: ricavabili dalle carte di credito, dalle cartelle delle tasse, dalle statistiche dei consumi, dalle previsioni compiute fin dall'inizio del nostro ciclo lavorativo sulla nostra presumi­bile data di morte dalle società di assicurazione. II corpo, di cui si sa a menadito capacita di resistenza e performance, usi e bisogni, specialmente superflui ed indotti, è anch'esso ridotto a indici digitalizzab­ili: si canta e ci si allena controllandosi su dei monitors, e tutta l'ultima storia è scritta su supporti smaterializzati, come il videotape, la registrazione su nastro, quando addirittura non si consuma e si annulla in una telefonata. Poveracci gli archivisti del futuro, a ricostruire tracce magnetiche vaghe, piene di rumori di fondo o di silenzi. Ed il mondo esterno che frequentiamo, anch'esso è pura immagine giacché lo conosciamo o lo memorizziamo non sulla base della fatica fisica per dominarlo, ma attraverso diapositive, documentari televisivi, libri a colori, depliants turistici. In realtà noi ne deleghiamo sempre di più la conoscenza ad occhi artifi­ciali e meccanici, che ci portano in foreste inesistenti, in quanto solo parzialmente con­servate o del tutto rifatte, in architetture e città arbitrariamente restaurate sulla base delle mode correnti, per costruire là dove lo si desidera un passato istantaneo, in pseudo società primitive dai comportamenti censurati in modo da rendere irrico­noscibili le motivazioni ed emozioni di base. Certo è qualcosa di più complesso, anche se naif, della nostra socialità svolta solo più via cavo, e prossimamente codificata in linguaggio Ascii. Il bisticcio domestico, il delitto sentimentale, l'aggressione senza ragione, come la bora ed il ciclone (ingredienti che abbiamo subito assimilato esteticamente, cioè di nuovo a livello di immagine introducendoli in mille film del terrore), l'incidente di macchina o la morte per cancro (su cui le cronache cercano di sorvolare), sono gli ultimi tizzi di protesta di una natura che soleva essere sublime, indomabile, divina annichilando l'orgoglio dell'uomo. Sono ora topoi da schedare, se rivestono un certo grado di eccezionalità, nell'archivio fotografico di una grande agenzia di stampa. Così, c'è un'ultima parentesi lasciata ancora indenne ma fruita ahimè senza più senso di rischio, di gioia liberatoria, d'imbarazzo dopo: nonostante cosmetici, deodoranti, pomate o pillole antifecondative l'amore resta una cosa: sporca, umida, sudata, come ha da essere. Fino a quando?
Testo battuto con personal computer Epson X8; stampante Epson FX 80; programma: Word star; inviatoci dall'autore i1 21-3-1985.
“Gran Bazar” giugno-luglio 1985.

                      

Tuesday, November 3, 2015

Machina / Ingenium


INGENIUM : artefatto opera dell'ingegno
MACHINA (dal Greco mechanà) è dispositivo per fare cose innaturali

Sino al Rinascimento la macchina ha caratteristiche negative (come continuerà ad essere anche nella nostra Lingia il termine "macchinazione"). Macchine sono: il deus ex machina, il Cavallo di Troia, le macchine da guerra, la macchina costruita da Dedalo per Pasifae,...

Nel linguaggio moderno: macchina = "artefatto che consumando una risorsa modifica l'ordina di un sistema".