nella seconda metà del XIX secolo
gli europei avevano scarso interesse per i consumatori
africani. I sudditi coloniali dovevano essere coolies per le miniere e le
piantagioni, non acquirenti. Quando faceva loro comodo, gli imperialisti non
avevano difficoltà a sospendere le leggi del mercato. Gli africani furono spinti a
diventare forza lavoro con i furti delle terre e le mitragliatrici Maxim, non certo
attratti dalla prospettiva di un salario di sussistenza. Il pregiudizio dell’africano
«pigro» era una giustificazione per pagare salari bassi o nessun salario del tutto.
Si trattava molto probabilmente di una visione alquanto miope.
I consumatori africani furono abbandonati anche dai loro amici missionari.
Già negli anni Quaranta del XIX secolo, i metodisti wesleyani si lamentavano che
il commercio rendeva gli africani infidi e materialisti. Alla fine del secolo, tutti i
gruppi missionari vedevano il commercio e il consumo come peccato, non certo
come terreno di coltura per una vita cristiana.
Gli africani, secondo quanto scritto nel 2000 dal
giornalista Chika Onyeani, di origini nigeriane, hanno perpetuato la loro
schiavitú coloniale, degenerando in una parassitica «corsa ai consumi» anziché
investire nel capitale umano e nello sviluppo come le altre «razze produttive» 36.
I beni di consumo sono stati contaminati dal loro groviglio con la schiavitú e la
conquista, e alcuni storici occidentali continuano a caratterizzarli come una
malattia «contagiosa» che ha distrutto le culture autoctone
negli ultimi duecento anni, collezionismo e consumo si
sono rafforzati reciprocamente, nei musei, ma anche in abitazioni private, con
raccolte di francobolli, oggetti d’antiquariato, lattine di birra rare o schiaccianoci
esotici provenienti da paesi lontani
Nella sua forma ufficiale, il dominio britannico abbatté l’intero impianto di
questo lusso basato sulle corti e sui produttori locali che lo sostenevano.
Allorché gli eserciti principeschi furono smobilitati e i cortigiani persero le loro
indennità, le regioni si contrassero come palloncini sgonfi. Gli artigiani rimasero
privi dei loro clienti altolocati che acquistavano le stoffe migliori, cuoio e frutta
candita. Molte cittadine assistettero a un vero e proprio esodo
L’evoluzione del concetto dello «standard di vita» è un ottimo indicatore delle
speranze e delle ansie legate all’aumento del potere d’acquisto. I bilanci delle
famiglie erano stati studiati per la prima volta nel XVII secolo in Francia e
Inghilterra. Dalla metà del XIX secolo, essi si svilupparono nello strumento
fondamentale di un’indagine sociale a livello sempre piú globale.
Per i successori di A. Smith, David Ricardo e John Stuart Mill, l’economia riguardava la terra
e la produzione. Negli anni Quaranta del XIX secolo, in Francia, un liberale come
Frédéric Bastiat, su posizioni estreme, aveva innalzato il vessillo del
consumatore nella sua crociata per il «libero scambio»; nel 1850, le ultime
parole di Bastiat erano state molto probabilmente «dobbiamo imparare a
guardare ogni cosa dal punto di vista del consumatore».
Gli anni Novanta del XIX secolo e il primo decennio del XX non
furono solo l’epoca d’oro dei grandi magazzini e del puro piacere di andare per
negozi. Essi furono altresí il momento in cui i movimenti sociali cominciarono a
mobilitare i consumatori per riformare la società.
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