Noi produciamo la macchina; la macchina ci opprime con una realtà inumana e può renderci sgradevole il rapporto con essa, il rapporto che abbiamo col mondo grazie ad essa. L'industrial design sembra risolvere il problema: fonde bellezza e utilità e ci restituisce una macchina umanizzata, a misura d'uomo. Un frullino, un coltello, una macchina da scrivere che esprime le sue possibilità d'uso in una serie di rapporti gradevoli, che invita la mano a toccarla, accarezzarla, usarla; ecco una soluzione. L'uomo si integra armoniosamente alla propria funzione e allo strumento che la permette. Ma di fronte a questa soluzione ottimistica insorge la coscienza avvertita del moralista e del critico del costume la realtà industriale maschera l'oppressione che esercita su di noi e ci invita a smemorare camuffando le nostre rese alla macchina che ci agisce, facendoci avvertire come gradevole un rapporto che invece ci diminuisce e ci rende schiavi. Cerchiamo dunque una soluzione. Per ricordare ai miei simili che manovrando la macchina da scrivere compiono un lavoro che non apparterrà loro e che pertanto li renderà schiavi, dovrò dunque costruire macchine malagevoli e spigolose, repellenti all'uso, capaci di provvedere a chi le manovra una sofferenza salutare? L'idea è quasi morbosa, è il sogno di un pazzo, non c'è dubbio. Immaginiamoci che questi oggetti siano manovrati da persone che ormai lavorano non più per una potenza estranea, ma per se stessi e per il profitto comune. E’ ragionevole allora che gli oggetti esprimano una armonica integrazione tra forma e funzione? Neppure. A questo punto queste persone sarebbero fatalmente trascinate a lavorare ipnoticamente, non tanto tesi al profitto comune quanto arresi immediatamente alla potenza fascinatrice dell'oggetto, a quella sua attrattiva per cui ci si sente invitati a smemorare, esercitando la funzione, nello strumento in cui la funzione si integra così facilmente. L'ultimo modello di carrozzeria di automobile costituisce oggi una immagine mitica capace di divergere ogni nostra energia morale e farci perdere nella soddisfazione di un possesso che è un Ersatz; ma progettiamo una società collettivistica e pianificata in cui si lavori per provvedere ogni cittadino di una carrozzeria nuovo modello, e la soluzione finale sarà ancora la medesima, l'acquiescenza nella contemplazione-uso di una forma che, integrando la nostra esperienza di impiego, diverge e acqueta tutte le nostre energie, sconsigliandoci la tensione verso mete successive.
Badiamo bene: tutto questo è alienazione, ma lo è ineliminabilmente. Certo il sogno di una società più umana è il sogno di una società in cui tutti lavorino di comune accordo per avere più medicine, più libri e più automobili ultimo modello; ma che in ogni società tutto questo sia avvertito come alienante, comunque, irrimediabilmente, lo provano le esperienze parallele dei beatniks della west toast e dei poeti che protestano in termini individualistici e crepuscolari sulla piazza Majakovskij.
Umberto Eco, Opera aperta, Milano : Bompiani, 1981, pp. 244-245.
Nota: si legga il saggio di Giovanni Cutolo, Design, mercato e consumo.
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