Il salotto
Volendo riassumerla in una frase, si potrebbe dire che
la storia della vita privata è la storia dell'agio conquistato con lentezza.
Fino al diciottesimo secolo, l'idea di stare comodi a casa propria era così
sconosciuta che non esisteva nemmeno una parola per descriverla. II termine comfortable
significava semplicemente « capace di essere consolato ». Il conforto era
qualcosa che si offriva a chi era ferito o angosciato. II primo a usare la
parola nel senso moderno fu lo scrittore Horace Walpole, che nel 1770, in una lettera a un
amico, osservava che una certa Mrs White lo accudiva nel migliore dei modi
facendolo sentire « il più comodo possibile ». All'inizio del diciannovesimo
secolo tutti parlavano di case comode o vite comode, ma prima dell'epoca di
Walpole non lo faceva nessuno.
Il locale di casa che incarna meglio di
qualsiasi altro lo spirito (se non la realtà) della comodità è la stanza dal
nome strano in cui ci troviamo ora, la drawing
room (il salotto). II termine è un'abbreviazione dell'antico withdrawing room, che
indicava uno spazio in cui la famiglia si poteva « ritirare » isolandosi dagli
altri abitanti della casa, e non è mai realmente entrato nell'inglese parlato.
Per un certo periodo, nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, negli ambienti
più raffinati, subì la concorrenza del francese salon, a volte anglicizzato in saloon,
ma con l'andare del tempo entrambi i termini vennero gradualmente associati
a spazi non domestici e saloon passò a indicare prima un locale pubblico in un
albergo o in una nave, poi un luogo in cui si serve da: bere e alla fine,
inaspettatamente, un tipo di automobile. Salon,
dal canto suo, venne indissolubilmente associato alle creazioni artistiche
e per finire, a partire dagli anni Dieci, ai parrucchieri e agli istituti di
bellezza. Parlour, il termine a lungo prediletto dagli americani per
indicare il locale principale della casa, ha un sentore di frontiera ottocentesca,
ma in realtà è il più antico di tutti. [...]
(Bill Bryson, Breve storia della vita privata, Parma : Guanda, 2011, p. 147)
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