Thursday, December 3, 2020

Leonardo SInisgalli a Milano

 

"Civiltà delle Macchine", n. 5, 1955

Le mie stagioni milanesi, di Leonardo Sinisgalli

REDUCE da Padova dove ero andato per le prove scritte di Scienza delle Costruzioni e di Impianti elettrici (il mio primo passaggio sul Po) capitai a Milano la prima volta e mi feci portare in viale Romagna dove da qualche anno abitava mia zia. Era il novembre del 1933, se ricordo bene. Avevo addosso un impermeabile, retaggio degli ultimi anni di università. M'era servito anche da ufficiale: bastava che appuntassi sul bavero due stellette minute. E il bavero, infatti, era tutto punzecchiato come i polpastrelli di Madame Bovary. Ricordo, ma non c'entra niente con questa storia, la sera in cui una ragazza che frequentava la mia pensione in piazza Indipendenza, vicino alla nostra caserma, volle mettersi il mio impermeabile, il mio berretto, la mia sciabola, gli stivati, gli speroni, e uscire sulla strada per farsi salutare dai nostri artiglieri in libera uscita. A Padova e a Milano quel triste indumento si rivelò non soltanto precario, ma veramente povero. E la mia padrona di casa a Lambrate dovette simpatizzare con il cupo ingegnere mussulmano che veniva ad affrontare la nebbia così disarmato. Chi ha letto qualche mio libro conosce queste cose in un'altra chiave. Qui debbo toccare ragioni e non immagini, qui devo parlare della mia educazione al lavoro più che delle mie effimere conquiste di stile.

Prima di arrivare al noviziato, prima di giostrare con gli orari e i doveri, io ebbi un lungo periodo di disoccupazione. Ma il mio temperamento riuscì a salvarmi anche dai compromessi che, per stanchezza e per inedia, avrei potuto forse accettare quando ero davvero stufo di non far niente. "A me pare che ti non fai na got " mi disse la vecchietta di piazza Tricolore quando si accorse che mi svegliavo tardi, uscivo per mangiare, tornavo nella camera il pomeriggio per dormire. Ho raccontato tante volte agli amici che quella vecchietta spostava perfino le sfere dell'orologio per pigliarmi in castagna e proibirmi di metter piede nella stanza prima delle ore pomeridiane, l'ora in cui la mia camera al quarto piano, sul viale Biancamaria, poteva dirsi rassettata. Carmine Stella, il fratello di mia zia, mi aveva promesso un posto presso la Ditta Laros, fabbricante di piccoli motori per fuoribordo. Anche al Politecnico l'ingegner Montoro mi aveva fatto intravvedere la possibilità di un'occupazione nell'impianto di raggi X dell'Istituto di Metallurgia. Avevo lavorato con lui a Roma qualche mese e sapevo leggere negli spettri di Debye, nei microcieli di Laue.

Rasentavo le fabbriche verso il mezzogiorno, quando mi ero appena alzato dal letto, sentivo il fischio delle sirene come una frustata, guardavo le file degli operai che inforcavano le biciclette, e quelli che andavano all'osteria, e i muratori che consumavano sui margini del prato i loro cartocci. Avevo pietà di me. Ma non ero infelice, i miei compagni erano l'Amore e la Poesia. Mi consideravo fortunato? Non ricordo. Vivevo come un sonnambulo. Mio padre mi faceva mandare dalla Colombia una cinquantina di dollari al mese dai suoi cognati. Mi venivano spediti da una Ditta di Monza con cui erano associati. Il buon Tosetti, procuratore di quella Ditta, mi portò anche a Biella in automobile. Per poco non mi congelai. Egli se ne accorse, come se ne accorse Carmine Stella che andava lassù a ordinare grosse partite di pettinati per i suoi fratelli negozianti a Bogotà. Mi regalarono due tagli di abito e Carmine Stella mi portò dal suo sarto e ordinò per me un bellissimo pastrano su misura. Mia zia mi fece trovare un paio di guanti sotto l'albero di Natale. Le mie cugine mi diedero scarpe e cravatte.

Anche la mia speranza di trasferirmi a Biella in una fabbrica di tessuti svanì molto presto. Intanto io arrotavo i denti attorno agli ossi di manzo che mi affannavo a spolpare in una mensa a prezzo fisso, in piazzale Oberdan, vicino all'Ufficio delle corse. Anche l'ingegnere Picker mi aveva promesso di farmi lavorare nella sua azienda. Mi rimisi a studiare elettromeccanica. Credo che egli fabbricasse contatori e progettasse installazioni elettriche per le case e le officine. Aveva lo studio in via Tadini, all'ombra di quegli alberi indimenticabili che confinano con i giardini della bellissima ripa malfamata. Risposi anche a una offerta di lavoro che la mia padrona di casa aveva letto sul giornale. Ebbi la fortuna di essere chiamato, e una mattina di pioggia raggiunsi via Borghetto cinque minuti prima delle otto. Mi diedero da leggere un mucchio di stampati sulle applicazioni di una lega antifrizione. Poi mi capitò di dover rispondere a una telefonata dalla Germania. Non potevo cavarmela. Mi dissero che il lavoro richiedeva una perfetta conoscenza della lingua. Tirai avanti fino alle cinque del pomeriggio. Me ne tornai a casa risollevato, dopo quella tragica esperienza. La signora Mileo era afflitta della mia sorte. Ma ero innamorato, avevo la mia bella tigre che divorava da Motta babà con la crema. E poteva accadere intorno a me il finimondo, non me ne sarei accorto. Riprendemmo quelle sere a giocare a scopa e a interrogare il mio incerto destino.

L'estate venne da Bogotà un cognato di mia zia, Vincenzo Buraglia, con due bei bambini che parlavano lo spagnolo degli angeli e mi chiamavano " il capitano ". Vincenzo Buraglia era un meccanico provetto, pieno di genio e di bontà. Mi trattava perfino con rispetto, per via della mia laurea. Ma si accorse subito che io non sarei stato capace di avvitare un bullone o di mettere a posto la punta di un trapano. Sapevo tanto di matematiche, ma capivo pochissimo di macchine. Le mie mani erano rimaste stupide. Ero ammiratissimo della sagacia di Vincenzo, gli invidiavo le nocche robuste e capaci, le orecchie attente a qualunque irregolarità nel funzionamento dei cilindri. Vincenzo distingueva i buoni vini e i cattivi lubrificanti. A Milano aveva portato un suo brevetto, un nuovo tipo di carburatore a farfalla che avrebbe dovuto costruire per la Zanchi-Angeloni. Si cominciarono a far le prove nel Laboratorio di Macchine del Politecnico sotto il controllo dell'ingegner Spelluzzi. Facemmo anche molti viaggi sulle autostrade. La farfallina d'alluminio ogni tanto perdeva qualche ala e il carburatore rimaneva soffocato. Vincenzo Buraglia pensava d'inserirmi nella società che si sarebbe certamente costituita per fabbricare il suo apparecchio. Sognava licenze da vendere in tutto il mondo, fabbriche da impiantare in tutti i Paesi. Avevamo fatto insieme molti viaggi, sperperato molto danaro. Ritornarono l'autunno in Sud America. Io mi decisi ad anticipare perfino una caparra a un filibustiere che abitava accanto a noi, in via Teodosio, e che mi aveva promesso lavoro in un'industria di materiali per l'edilizia.

Era trascorso più di un anno. Un giorno il poeta Alfonso Gatto mi indicò un avviso su una colonna del " Corriere ". " Può darsi che t'interessi ", mi disse. Lo lessi: cercavano un ingegnere-giornalista per il Servizio Propaganda di una Società. Andai in via Macedonio Melloni a presentare le mie carte. Dopo qualche mese mi richiamarono e mi dissero di organizzare lezioni e conferenze sull'arredamento e l'architettura moderna. Mi riempii la borsa di campioni di linoleum. Intanto ero stato negli stabilimenti a Narni, in Umbria, per seguire la fabbricazione dei rotoli. Ebbi l'occasione di viaggiare di provincia in provincia. Passai ore bellissime a Pavia, a Mantova, a Cremona, ore che non dimenticherò mai. Stavo fuori per cinque o sei giorni, qualche volta per due settimane. Tornavo nella mia stanzetta di via Rugabella la sera di sabato. Presi gusto al lavoro. Il lavoro mi restituiva il piacere di starmene qualche volta a scrivere e a sognare, il piacere di vivere che avevo quasi perduto. Scossi la mia accidia, mi svegliai. Arrivavo ai treni con solo qualche minuto d'anticipo. Io ho quasi perduto la memoria ma queste minuzie che ho racimolato di colpo devono aver avuto allora riflessi assai dolenti. Non ho fatto sforzi per allineare i ricordi della mia preistoria milanese.

Un pomeriggio di estate del 1936 mi presentai all'ingegnere Adriano Olivetti che mi aveva chiamato, per un colloquio, nel suo ufficio di via Clerici. Gli portavo il mio " Quaderno di Geometria " in un estratto della rivista " Campo Grafico "; l'avevo scritto l'inverno prima a Montemnurro, quand'ero quasi deciso a non tornare mai più in città. Occupava appena tre fogli di scrittura minutissima che presero corpo a Milano, per la gentilezza del mio caro amico Tommaso Bozza, allora addetto alla Biblioteca di Brera, in circa una ventina di pagine dattiloscritte. Non avevo altre referenze da dare; sì, qualche poesia della prima stagione che Ungaretti aveva citate, ancora inedite, in un articolo che aveva scritto per la " Gazzetta " di Amicucci. I versi "trascendentali" (l'aggettivo è di Gianfranco Contini) e i miei primi assaggi di matematica bastarono all'ingegnere Adriano per propormi la direzione del suo Ufficio Tecnico di Pubblicità. Designazione a quei tempi ambitissima per l'alta tradizione che in pochi anni ­ attraverso l'opera di Xanti Shawinsky, di Costantino Nivola (entrambi in Nord America oggi) e il fanatismo dell'indimenticabile Zweteremich ­ quello studio era riuscito a imporre in Italia e fuori. Il mio curriculum di appena un anno presso la Società del Linoleum mi era servito a qualcosa; sull'esempio di un uomo integro e astutissimo, un celibe vegetariano e poliglotta, il signor Lesti (poi passato alla Direzione Commerciale della Saffa) avevo imparato qualche regola, qualche segreto di quella che era allora considerata la strategia pubblicitaria. Il signor Lesti non dava, seguendo l'esempio degli americani, grande importanza alla forma del messaggio; egli pensava che un buon servizio doveva funzionare in strettissimo accordo con i venditori. Il cliente non aveva la fisionomia che noi gli abbiamo dato, egli non lo sopravvalutava, non lo aggrediva. Lo raggirava, lo circuiva, non lo prendeva di petto. Ma pochi meglio di lui saprebbero ancor oggi valutare l'efficacia e il prezzo di un intervento pubblicitario. Quanto si può pagare la copertina di tutti gli elenchi dei telefoni? Quale può essere la convenienza di un manifesto diffuso in tutto il Paese? E qual è la dimensione giusta di un annuncio da pubblicare sui giornali? Conviene tenere fisso l'annuncio o svolgere una serie di argomentazioni? Qual è il ritmo migliore per un prodotto di largo consumo e per uno strumento di lavoro? Erano problemi di cui il signor Lesti possedeva sempre la soluzione giusta, problemi che ancor oggi si presentano insidiosi e imbarazzanti. Quand'io andai alla Olivetti conoscevo dunque un po' di questa aritmetica, di questa ars divinatoria. Ma chiesi un impegno superiore al mio mestiere. Più che affidare i risultati alla tattica, al calcolo statistico, io puntai con molta temerarietà sulla simpatia, sulla seduzione di un linguaggio nuovo, sulla messa a fuoco di una serie di immagini un poco enigmatiche, chiamando il lettore, l'utente, a partecipare a una specie di symposium dell'intelligenza, a una parade, a un certame. Con la collaborazione di un gruppo di allievi della Scuola di Monza (Pintori, Guzzi, Algarotti) riuscimmo a fabbricare in pochi anni una tale congerie di monadi, di matrici, di cellule, di molecole grafiche, plastiche e pittoriche, da surclassare tutto il lavoro del genere che si faceva in Italia.

Noi affermammo che una pagina stampata, una vetrina, un fotomontaggio costituivano delle testimonianze nientaffatto trascurabili della nostra civiltà, della nostra cultura. La fabbrica di Ivrea lavorava con una tolleranza che non doveva superare il millesimo di millimetro; come potevamo noialtri dimostrarci sciatti o approssimativi? Credo di aver io stesso facilitato allora i primi incontri tra l'ingegnere Adriano Olivetti e Marcello Nizzoli, nello studio di via Rossini, dove Nizzoli lavorava da almeno vent'anni. E fin da allora ebbi modo di discutere con loro i primi simulacri in gesso e in legno di quella che dopo qualche anno divenne la "Lexikon", la macchina per scrivere più bella del mondo. Da uno stanzone che occupavamo sul cortile ci trasferimmo al primo piano su via Clerici, e ricordo ogni sera il passaggio in bicicletta, sempre alla stessa ora, dell'uomo-cane, il latrato che era per noi come il suono dell'Angelus. Quel nostro mestiere non dispiaceva neppure ai nostri amici. In via Clerici capitarono Vincenzo Cardarelli ed Elio Vittorini, Quasimodo e Gatto, Sandro Penna e Vittorio Sereni. Capitarono pittori, scultori, architetti. Persico era morto qualche anno prima e noi ci consideravamo tutti suoi discepoli, perché fu lui, fu il suo esempio, i suoi discorsi, i suoi incoraggiamenti a farci considerare allo stesso livello la dignità del lavoro e la responsabilità dell'arte. Ci sentivamo sempre confortati e ammoniti dalla sua cara ombra.

Le nostre audacie, i nostri entusiasmi, il mio fanatismo di allora non si giustificherebbero, non si capirebbero se non ci fosse sullo sfondo una città come Milano, il credito che i milanesi sanno dare alle operazioni che un poco li sollevano dalla vita e dal senso comune. Io stesso non avrei mai preso sul serio certi problemi se mi fossi immiserito su un piccolo Olimpo, se anch'io, sull'esempio dei miei amici letterati, mi fossi impietrito nel mezzobusto con l'illusione di entrare così di soppiatto nella storia. Milano ci diede il coraggio di alimentare continuamente la nostra disposizione a comunicare col prossimo, anche a costo di cambiare il physique du rôle, col vantaggio di passare, come Seurat, per un personaggio qualunque, un borghese, più che per un intellettuale stravagante, cinico, scettico e, tutto sommato, noioso.

Quel mio lavoro durò ininterrotto fino al principio della guerra. Nel nostro atelier ci fu una fioritura incessante di immagini, di schemi, di apparati. Come ho detto altrove, il dèmone dell'analogia ci suggeriva ogni giorno uno spunto. I miei ragazzi erano di un'abilità portentosa, realizzavano in un batter d'occhio qualunque fantasia, gli accostamenti più inattesi di oggetti, di forme, di colore, di caratteri. Le vetrine che allestimmo nel negozio in Galleria, per un paio d'anni ogni quindici giorni, erano seguite dal pubblico come una vicenda cittadina, una gara, un exploit. Corrado Alvaro scrisse allora una corrispondenza per " La Stampa " di Torino in cui sottolineava il significato di questa partecipazione collettiva alle prove di un gusto senza compromessi, senza retorica, senza piaggeria. Finalmente " la merce " guadagnava la sua dignità di " oggetto ", il frutto del lavoro di una grande officina veniva portato in mostra col rispetto e la venerazione che impone un'opera d'arte. Il nostro journalisme architectural si teneva al corrente di tutte le conquiste vive della tecnica e della espressione. Guido Modiano definì su " Domus " la stretta parentela tra architettura e grafismo in un bellissimo pezzo, dedicato ai nostri involucri rigati. Una vecchia copertina della " Domenica del Corriere " era accostata a una scultura di Fancello o di Fontana o di Broggini. Una superficie matematica pigliava risalto e significato al confronto di una tastiera ingigantita. Elio Vittorini, invitato a scrivere una prefazione alla raccolta di alcune nostre pagine di pubblicità, puntò diritto allo scopo quando definì il nostro lavoro come un contributo al riscatto dalla retorica e dal dogmatismo. Furono davvero i miei anni belli, gli anni di via Clerici, di via Rugabella, di via Velasca, di Bottonuto. Furono, è incredibile, anche le stagioni più feconde per la nostra poesia. Perché proprio in quegli anni partirono da Milano i nostri libretti di versi. E Milano, credo, non aveva avuto mai un peso così decisivo nella storia della nostra cultura. Chi legge oggi gli epigrammi a San Babila, a Porta Nuova, a Via Velasca, alle eglantine, alle pervinche, forse stenta a riconoscere la città della nostra giovinezza.

La mia seconda stagione milanese porta il peso e la responsabilità dei quarant'anni (i capelli grigi e l'emicrania, piazza Duse e via Zuretti, le trattorie di Giuntoli e di Pepori), i colori giallo e rosso della Pirelli. Dentro questi anni bisogna far entrare il trambusto di piazzale Loreto e gli odori della Bicocca. Bisogna far entrare le Alpi che qualche volta, nei giorni limpidi, io riuscivo a scoprire dalla finestra dell'ottavo piano del Palazzone. Poi la monotona e bellissima storia del marciapiede di via Vittor Pisani, dalla porta dell'Albergo Doria fino in fondo, dove, dall'altezza di un gradino appena (il gradino di un marciapiede) si scende nel piazzale della Stazione. Si scende sul piazzale con un salto di appena diciotto centimetri, che è stato sempre per me, nuotatore impossibile, un vero e proprio t tuffo a testa in giù, dal trampolino (del letto, dei libri, della solitudine) fin sotto il livello della giornata di lavoro. La storia del marciapiede di via Vittor Pisani, questo incredibile tappeto d'asfalto, più prestigioso di un tappeto orientale, più ricco di un sottobosco, più enigmatico del fondo del mare, la racconterò un'altra volta. So che una sera ho rivelato a Riccardo Manzi la mia scoperta e siamo stati insieme due ore, a testa bassa, a ripercorrere su e giù, a leggere rallentati duecento metri di film. È un film da fare, un film di duecento metri (una misura assurda!) che forse nessuno intenderà: un film sulle crepe, sulle incrinature, sui solchi, sulle lacerazioni, sulle cicatrici, sui cunicoli, sui simboli, infine, che pioggia e nebbia e gelo hanno tracciato nel bitume. E poi, eppoi c'è il trolley del tram numero 7.

Se sfoglio i miei appunti di allora, autunno-inverno 1948, trovo curiose indicazioni, trovo i segni delle prime punture, il grafico della linea di penetrazione del mondo della gomma nel inondo dei miei pensieri. Trovo scritto, per esempio, che le vie del sonno sono serpentine, e c'è vicino a questa nota uno scarabocchio che potrebbe essere anche un ritratto della tortiglia, del cord, oppure l'ideogramma di un battistrada. Appresso trovo divertimenti di questo genere: " I surrealisti devono aver cercato parole elastiche; Moore ha scoperto una scultura pneumatica; Dalì ha fabbricato orologi di caucciù ". E in altra pagina, trascritta l'ultima terzina di un famoso sonetto di Rimbaud: " Où, rimant au milieu des ombres fantastiques. Comme des lyres, je tirais les élastiques Des mes souliers blessés, un pied contre mon coeur! ".

È chiaro, si tratta di schermaglie, di difese superflue, di raggiri premonitori: il regno del flessibile sceglieva le vie più tortuose per farsi strada nel mio cervello.

Poi ci furono le impressioni in fabbrica. " I fili, i canapi, le trecce, i cavi dentro cui trascorreranno i fremiti delle acque, i sobbalzi delle piogge e delle nevi. I fili di rame che svuotano i laghi, ecc. ". Il 29 novembre 1948 feci la seconda visita ai cavi (i cavi m'intrigavano non c'è dubbio). " L'operazione più intrinseca che si compie entro queste immense navate, questi altissimi padiglioni, consiste nel proteggere il rame dal contatto diretto con la terra. È strano come tutti i traslochi delle cose più delicate e lubriche, sangue, semenza, clorofilla, linfa, energia, vis, suono, si compiano meglio all'oscuro, sottoterra. L'isolamento dei cavi deve evitare le dispersioni di corrente, deve tamponare qualunque eventuale e possibile emorragia. E gli operai addetti alle macchine fasciatrici hanno anche nella figura qualcosa che ricorda gl'infermieri e gli aiuti delle sale operatorie. C'è ancora di più: il sistema di bendaggio (gomma, carta, miscela, olio) ricorda molto da vicino i processi di mummificazione. Con la differenza che davvero entro questa basilica si opera una difesa dell'anima., perché l'elettricità è tutta anima e niente corpo. Il midollo di questi possenti pitoni (lunghi anche mille metri e grossi fino a centocinquanta millimetri) è quasi sempre triplice, ternario, perché in effetti, l'energia è trigemina. È un triangolo. Una trinità ".

Vedete, ero già posseduto. Ero perduto.

Fu in quella stessa epoca che visitai alla Bicocca il prof. Allavena e conobbi il dott. Oberto, e mi documentai sulle macromolecole, sulla memoria della gomma (l'isteresi elastica è memoria!) e sull'influenza che il nerofumo (in polvere millesimale) e lo zolfo (il fiato di Satana) esercitano sull'assetto delle catene molecolari.

Così dopo un rapido noviziato, tra alchimia e tecnologia, presi il mio posto tra produzione e distribuzione, tra operai e clienti. Ebbi poco tempo per sottilizzare sulla vendita e sul vantaggio. Mi buttai nella mischia, mi attaccai ai telefoni. Ogni gesto doveva da allora diventare pubblico, manifestarsi, chiamare, soccorrere, spingere, urtare, sedurre. Fu allora, novembre 1948, che intorno a noi, Luraghi, Tofanelli e io, cominciammo a radunare gli amici e a coinvolgerli nelle nostre stesse responsabilità.

Devo dire di più. Luraghi accarezzava da tempo il progetto di una Rivista Aziendale e per questa iniziativa aveva ottenuto il consenso del dott. Alberto Pirelli e l'adesione degli altri direttori. Credo che ne parlasse a Tofanelli fin dall'estate del 1948. E a quel tempo, infatti, risalgono le prime " avances " che Tofanelli mi rivolse per convincermi a tornare a Milano, sulla breccia. E in verità, ripreso a Milano il mio lavoro accanto a Luraghi, trovai dopo qualche giorno già pronti un progetto che " in nuce " o in bozzolo, o in germe, conteneva l'idea della Rivista. Lo so che " dal germe di un'idea può nascere Apollo oppure un mostro ": devo dire che per il calco già pronto non fu difficile scegliere il materiale meglio rispondente, meglio aderente al disegno di quella forma.

Fu discusso a lungo il titolo, fu vinta anche la nobile riservatezza del dottor Piero e del dottor Alberto: ci si convinse tutti che quel nome, meglio di qualsiasi sigla astratta e di qualunque proposito presuntuoso, poteva accogliere in Italia e all'Estero una massa imponente di amici guadagnati in settanta anni. Rimando il lettore alle precise parole introduttive che comparvero nel primo numero, a pag. 8, con la firma di Alberto Pirelli.

Che cosa distinse subito, fin dai primi numeri, la Rivista Pirelli dalle altre pubblicazioni analoghe? C'erano sulla piazza ottimi esempi: " Ferrania ", " Edilizia Moderna ", la " Rivista del Vetro ", varie riviste farmaceutiche. C'erano stati, ma tanto remoti, i venti numeri e più di " Tecnica ed Organizzazione ", stampati a Ivrea dalla Olivetti. Devo dire che lo stacco da quel genere di divulgazione fu netto. Perché i due piatti della bilancia, tecnica e cultura, problemi e suggestioni, inchieste e letteratura, concretezza e divagazione, furono tenuti sempre in equilibrio. E i nomi di Ungaretti, di Montale, di Quasimodo, di Baldini, di Vergani, di Carrieri, di Calzini, di Bernari, di Valsecchi, di Dorfles, di Linati, di Barisoni, di Biasion, di Manzi, di Munari, li troviamo fin dai primi numeri affiancati a Canestrini, Ambrosini, Verrati, Cesura, Nutrizio, Minoletti, Dicorato, Bonicelli, Gennarini, Laurenzi, Sorrentino, Patellani, Suppini. Convincere letterati e giornalisti (e tra i più illustri) a scoprire i segreti della tecnica, della scienza, del progresso (lo sport trova tifosi più disponibili in ogni categoria) è stato un vanto della Rivista. Che bandì con successo anche due concorsi, il primo per tre racconti sportivi, il secondo per dieci cronache sportive.

Pubblicammo in quattro anni tutti articoli di prima mano, tutti scritti inediti. Provocammo incontri tra scienziati e giornalisti, tra tecnici e poeti. Senza tema di commettere eresie mandammo i reporters negli studi, nelle aule, nei laboratori a sorprendere con lampi di magnesio personaggi tanto illustri quanto riluttanti, come Severi. Amaldi, Marcello, De Marchi, Gabrielli, Nervi, Colonnetti, Ponti, Fauser, Padre Gemelli, Smeraldi.

Se si pensa che soltanto in questi ultimi anni il giornalismo italiano ha guadagnato " in funzione " quanto ha perduto " in rappresentazione ", se si considera che è tanto difficile da noi torcere il collo alla retorica e che si può essere tacciati di improntitudine se si chiede uno scritto su tema obbligato, perché il bau bau dell'ispirazione, non è del tutto sotterrato, si comprende meglio il significato di un lavoro che, bene o male, era una prova di sottomissione, non certo di orgoglio.

All'intelligenza italiana non si sollecitarono sviolinate ed exploits, ma piuttosto constatazioni, sopraluoghi, rendiconti. Tanto meglio se qualcuno riusciva ad accendersi di fronte a una tesi, a un incontro imprevisto, a uno spettacolo, a un dispositivo. Devo confessare sinceramente che il tempo dei Francesco Redi e degli Algarotti, per non dire dei Galilei e dei Cattaneo è davvero lontano. La nostra cultura è quasi tutta impastata di storia e di oratoria. È impastata per fortuna anche di poesia. E io credo nell'acume, nella curiorità, nell'entusiasmo dei poeti: credo nella loro capacità di sorprendersi, di riflettere, di approfondire.

Vorrei dire, di straforo, che una delle mie ambizioni fu proprio questa: provocare, stimolare una prosa analitica piuttosto che il solito pezzo commemorativo, un referto e non un inno, un commento non una predica. Io sono sicuro che se i nostri scienziati e i nostri tecnici considerassero l'esercizio della scrittura alla stregua di un'operazione dignitosa, (una vera e propria lima del pensiero) qual è sempre stata per Leonardo o per Cartesio, per Leon Battista Alberti o per Maxwell, per Linneo o per Einstein, e se viceversa i letterati e i filosofi e i critici, come hanno fatto del resto Goethe e Valery, Hegel e Bergson, Giedion e Dewey, accogliessero, con rinnovata simpatia, le ipotesi e i risultati del calcolo e dell'esperienza, una concordia nuova potrebbe sorgere tra le inquietudini e le stanchezze del nostro tempo, non voglio dire un nuovo mito. È molto probabile che questo genere di letteratura " a comando ", questo giornalismo tecnico prenda il sopravvento sulle pagine scritte in libertà, sulla prosa gratuita, sulla scrittura disinteressata. Abbiamo letto in questi ultimi giorni una " memoria " che accompagnava la relazione di un bilancio di una grande società finanziaria belga: un saggio sull'utilizzazione delle materie prime che poteva portare una firma celebre, ed era invece soltanto una plaquette anonima. Io aspetto il gran giorno in cui il Regno dell'Utile sarà rinverdito dalla cultura, dalle metafore, dall'intel1igenza. Quest'estate ho aperto qualche libro dei nostri illuministi, l'abate Galiani, Filangieri, Verri. Mi veniva da confrontare la nitidezza dei loro pensieri e delle loro parole alle sbavature, alla schiuma, alla sciattezza di tanti articoli di fondo dei nostri giornaloni. Ho cercato sempre di stimolare nei collaboratori la ricerca di un'espressione meditata: ma c'è ancora molto cammino da percorrere per guadagnare precisione e leggerezza.

Ho rispolverato alcuni vecchi ricordi e qualche memoria di ieri. Ho voluto pagare il mio tributo a una città adorabile, a degli amici carissimi. Per i miei lettori di oggi, i lettori di " Civiltà delle macchine ", ho creduto, necessario dopo quasi tre anni di sodalizio (" Civiltà delle macchine " prese forma, appunto tra il settembre e l'ottobre del 1952) mettere sul tavolo anche le mie carte più antiche. La nuova impresa, temeraria e affascinante a cui mi sono votato, in questi ultimi tre anni ha successi superiori a ogni speranza. Siamo sicuri di poter fare ancora meglio.

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