"Civiltà delle Macchine", n. 5, 1955
Le mie stagioni milanesi, di Leonardo Sinisgalli
REDUCE da Padova dove ero andato per le prove scritte di Scienza delle
Costruzioni e di Impianti elettrici (il mio primo passaggio sul Po) capitai a
Milano la prima volta e mi feci portare in viale Romagna dove da qualche anno
abitava mia zia. Era il novembre del 1933, se ricordo bene. Avevo addosso un
impermeabile, retaggio degli ultimi anni di università. M'era servito anche da
ufficiale: bastava che appuntassi sul bavero due stellette minute. E il bavero,
infatti, era tutto punzecchiato come i polpastrelli di Madame Bovary. Ricordo,
ma non c'entra niente con questa storia, la sera in cui una ragazza che
frequentava la mia pensione in piazza Indipendenza, vicino alla nostra caserma,
volle mettersi il mio impermeabile, il mio berretto, la mia sciabola, gli
stivati, gli speroni, e uscire sulla strada per farsi salutare dai nostri
artiglieri in libera uscita. A Padova e a Milano quel triste indumento si
rivelò non soltanto precario, ma veramente povero. E la mia padrona di casa a
Lambrate dovette simpatizzare con il cupo ingegnere mussulmano che veniva ad
affrontare la nebbia così disarmato. Chi ha letto qualche mio libro conosce
queste cose in un'altra chiave. Qui debbo toccare ragioni e non immagini, qui
devo parlare della mia educazione al lavoro più che delle mie effimere
conquiste di stile.
Prima di arrivare al noviziato, prima di giostrare con gli orari e i doveri,
io ebbi un lungo periodo di disoccupazione. Ma il mio temperamento riuscì a
salvarmi anche dai compromessi che, per stanchezza e per inedia, avrei potuto
forse accettare quando ero davvero stufo di non far niente. "A me pare che
ti non fai na got " mi disse la vecchietta di piazza Tricolore quando si
accorse che mi svegliavo tardi, uscivo per mangiare, tornavo nella camera il
pomeriggio per dormire. Ho raccontato tante volte agli amici che quella
vecchietta spostava perfino le sfere dell'orologio per pigliarmi in castagna e
proibirmi di metter piede nella stanza prima delle ore pomeridiane, l'ora in
cui la mia camera al quarto piano, sul viale Biancamaria, poteva dirsi
rassettata. Carmine Stella, il fratello di mia zia, mi aveva promesso un posto
presso
Rasentavo le fabbriche verso il mezzogiorno, quando mi ero appena alzato dal
letto, sentivo il fischio delle sirene come una frustata, guardavo le file
degli operai che inforcavano le biciclette, e quelli che andavano all'osteria,
e i muratori che consumavano sui margini del prato i loro cartocci. Avevo pietà
di me. Ma non ero infelice, i miei compagni erano l'Amore e
Anche la mia speranza di trasferirmi a Biella in una fabbrica di tessuti
svanì molto presto. Intanto io arrotavo i denti attorno agli ossi di manzo che
mi affannavo a spolpare in una mensa a prezzo fisso, in piazzale Oberdan,
vicino all'Ufficio delle corse. Anche l'ingegnere Picker mi aveva promesso di
farmi lavorare nella sua azienda. Mi rimisi a studiare elettromeccanica. Credo
che egli fabbricasse contatori e progettasse installazioni elettriche per le
case e le officine. Aveva lo studio in via Tadini, all'ombra di quegli alberi
indimenticabili che confinano con i giardini della bellissima ripa malfamata.
Risposi anche a una offerta di lavoro che la mia padrona di casa aveva letto
sul giornale. Ebbi la fortuna di essere chiamato, e una mattina di pioggia
raggiunsi via Borghetto cinque minuti prima delle otto. Mi diedero da leggere
un mucchio di stampati sulle applicazioni di una lega antifrizione. Poi mi
capitò di dover rispondere a una telefonata dalla Germania. Non potevo cavarmela.
Mi dissero che il lavoro richiedeva una perfetta conoscenza della lingua. Tirai
avanti fino alle cinque del pomeriggio. Me ne tornai a casa risollevato, dopo
quella tragica esperienza. La signora Mileo era afflitta della mia sorte. Ma
ero innamorato, avevo la mia bella tigre che divorava da Motta babà con la
crema. E poteva accadere intorno a me il finimondo, non me ne sarei accorto.
Riprendemmo quelle sere a giocare a scopa e a interrogare il mio incerto
destino.
L'estate venne da Bogotà un cognato di mia zia, Vincenzo Buraglia, con due
bei bambini che parlavano lo spagnolo degli angeli e mi chiamavano " il
capitano ". Vincenzo Buraglia era un meccanico provetto, pieno di genio e
di bontà. Mi trattava perfino con rispetto, per via della mia laurea. Ma si
accorse subito che io non sarei stato capace di avvitare un bullone o di
mettere a posto la punta di un trapano. Sapevo tanto di matematiche, ma capivo
pochissimo di macchine. Le mie mani erano rimaste stupide. Ero ammiratissimo
della sagacia di Vincenzo, gli invidiavo le nocche robuste e capaci, le
orecchie attente a qualunque irregolarità nel funzionamento dei cilindri.
Vincenzo distingueva i buoni vini e i cattivi lubrificanti. A Milano aveva
portato un suo brevetto, un nuovo tipo di carburatore a farfalla che avrebbe
dovuto costruire per
Era trascorso più di un anno. Un giorno il poeta Alfonso Gatto mi indicò un
avviso su una colonna del " Corriere ". " Può darsi che
t'interessi ", mi disse. Lo lessi: cercavano un ingegnere-giornalista per il
Servizio Propaganda di una Società. Andai in via Macedonio Melloni a presentare
le mie carte. Dopo qualche mese mi richiamarono e mi dissero di organizzare
lezioni e conferenze sull'arredamento e l'architettura moderna. Mi riempii la
borsa di campioni di linoleum. Intanto ero stato negli stabilimenti a Narni, in
Umbria, per seguire la fabbricazione dei rotoli. Ebbi l'occasione di viaggiare
di provincia in provincia. Passai ore bellissime a Pavia, a Mantova, a Cremona,
ore che non dimenticherò mai. Stavo fuori per cinque o sei giorni, qualche
volta per due settimane. Tornavo nella mia stanzetta di via Rugabella la sera
di sabato. Presi gusto al lavoro. Il lavoro mi restituiva il piacere di
starmene qualche volta a scrivere e a sognare, il piacere di vivere che avevo
quasi perduto. Scossi la mia accidia, mi svegliai. Arrivavo ai treni con solo
qualche minuto d'anticipo. Io ho quasi perduto la memoria ma queste minuzie che
ho racimolato di colpo devono aver avuto allora riflessi assai dolenti. Non ho
fatto sforzi per allineare i ricordi della mia preistoria milanese.
Un pomeriggio di estate del
Noi affermammo che una pagina stampata, una vetrina, un fotomontaggio
costituivano delle testimonianze nientaffatto trascurabili della nostra
civiltà, della nostra cultura. La fabbrica di Ivrea lavorava con una tolleranza
che non doveva superare il millesimo di millimetro; come potevamo noialtri
dimostrarci sciatti o approssimativi? Credo di aver io stesso facilitato allora
i primi incontri tra l'ingegnere Adriano Olivetti e Marcello Nizzoli, nello
studio di via Rossini, dove Nizzoli lavorava da almeno vent'anni. E fin da
allora ebbi modo di discutere con loro i primi simulacri in gesso e in legno di
quella che dopo qualche anno divenne la "Lexikon", la macchina per
scrivere più bella del mondo. Da uno stanzone che occupavamo sul cortile ci
trasferimmo al primo piano su via Clerici, e ricordo ogni sera il passaggio in
bicicletta, sempre alla stessa ora, dell'uomo-cane, il latrato che era per noi
come il suono dell'Angelus. Quel nostro mestiere non dispiaceva neppure ai
nostri amici. In via Clerici capitarono Vincenzo Cardarelli ed Elio Vittorini,
Quasimodo e Gatto, Sandro Penna e Vittorio Sereni. Capitarono pittori,
scultori, architetti. Persico era morto qualche anno prima e noi ci
consideravamo tutti suoi discepoli, perché fu lui, fu il suo esempio, i suoi
discorsi, i suoi incoraggiamenti a farci considerare allo stesso livello la
dignità del lavoro e la responsabilità dell'arte. Ci sentivamo sempre
confortati e ammoniti dalla sua cara ombra.
Le nostre audacie, i nostri entusiasmi, il mio fanatismo di allora non si
giustificherebbero, non si capirebbero se non ci fosse sullo sfondo una città
come Milano, il credito che i milanesi sanno dare alle operazioni che un poco
li sollevano dalla vita e dal senso comune. Io stesso non avrei mai preso sul
serio certi problemi se mi fossi immiserito su un piccolo Olimpo, se anch'io,
sull'esempio dei miei amici letterati, mi fossi impietrito nel mezzobusto con
l'illusione di entrare così di soppiatto nella storia. Milano ci diede il
coraggio di alimentare continuamente la nostra disposizione a comunicare col
prossimo, anche a costo di cambiare il physique du rôle, col vantaggio di
passare, come Seurat, per un personaggio qualunque, un borghese, più che per un
intellettuale stravagante, cinico, scettico e, tutto sommato, noioso.
Quel mio lavoro durò ininterrotto fino al principio della guerra. Nel nostro
atelier ci fu una fioritura incessante di immagini, di schemi, di apparati.
Come ho detto altrove, il dèmone dell'analogia ci suggeriva ogni giorno uno
spunto. I miei ragazzi erano di un'abilità portentosa, realizzavano in un
batter d'occhio qualunque fantasia, gli accostamenti più inattesi di oggetti,
di forme, di colore, di caratteri. Le vetrine che allestimmo nel negozio in
Galleria, per un paio d'anni ogni quindici giorni, erano seguite dal pubblico
come una vicenda cittadina, una gara, un exploit. Corrado Alvaro scrisse allora
una corrispondenza per "
La mia seconda stagione milanese porta il peso e la responsabilità dei
quarant'anni (i capelli grigi e l'emicrania, piazza Duse e via Zuretti, le
trattorie di Giuntoli e di Pepori), i colori giallo e rosso della Pirelli.
Dentro questi anni bisogna far entrare il trambusto di piazzale Loreto e gli
odori della Bicocca. Bisogna far entrare le Alpi che qualche volta, nei giorni
limpidi, io riuscivo a scoprire dalla finestra dell'ottavo piano del Palazzone.
Poi la monotona e bellissima storia del marciapiede di via Vittor Pisani, dalla
porta dell'Albergo Doria fino in fondo, dove, dall'altezza di un gradino appena
(il gradino di un marciapiede) si scende nel piazzale della Stazione. Si scende
sul piazzale con un salto di appena diciotto centimetri, che è stato sempre per
me, nuotatore impossibile, un vero e proprio t tuffo a testa in giù, dal
trampolino (del letto, dei libri, della solitudine) fin sotto il livello della
giornata di lavoro. La storia del marciapiede di via Vittor Pisani, questo
incredibile tappeto d'asfalto, più prestigioso di un tappeto orientale, più
ricco di un sottobosco, più enigmatico del fondo del mare, la racconterò
un'altra volta. So che una sera ho rivelato a Riccardo Manzi la mia scoperta e
siamo stati insieme due ore, a testa bassa, a ripercorrere su e giù, a leggere
rallentati duecento metri di film. È un film da fare, un film di duecento metri
(una misura assurda!) che forse nessuno intenderà: un film sulle crepe, sulle
incrinature, sui solchi, sulle lacerazioni, sulle cicatrici, sui cunicoli, sui
simboli, infine, che pioggia e nebbia e gelo hanno tracciato nel bitume. E poi,
eppoi c'è il trolley del tram numero 7.
Se sfoglio i miei appunti di allora, autunno-inverno 1948, trovo curiose
indicazioni, trovo i segni delle prime punture, il grafico della linea di
penetrazione del mondo della gomma nel inondo dei miei pensieri. Trovo scritto,
per esempio, che le vie del sonno sono serpentine, e c'è vicino a questa nota
uno scarabocchio che potrebbe essere anche un ritratto della tortiglia, del
cord, oppure l'ideogramma di un battistrada. Appresso trovo divertimenti di
questo genere: " I surrealisti devono aver cercato parole elastiche; Moore
ha scoperto una scultura pneumatica; Dalì ha fabbricato orologi di caucciù ".
E in altra pagina, trascritta l'ultima terzina di un famoso sonetto di Rimbaud:
" Où, rimant au milieu des ombres fantastiques. Comme des lyres, je tirais les élastiques Des mes
souliers blessés, un pied contre mon coeur! ".
È chiaro, si tratta di schermaglie, di difese superflue, di raggiri
premonitori: il regno del flessibile sceglieva le vie più tortuose per farsi
strada nel mio cervello.
Poi ci furono le impressioni in fabbrica. " I fili, i canapi, le
trecce, i cavi dentro cui trascorreranno i fremiti delle acque, i sobbalzi
delle piogge e delle nevi. I fili di rame che svuotano i laghi, ecc. ". Il
29 novembre 1948 feci la seconda visita ai cavi (i cavi m'intrigavano non c'è
dubbio). " L'operazione più intrinseca che si compie entro queste immense
navate, questi altissimi padiglioni, consiste nel proteggere il rame dal
contatto diretto con la terra. È strano come tutti i traslochi delle cose più
delicate e lubriche, sangue, semenza, clorofilla, linfa, energia, vis, suono,
si compiano meglio all'oscuro, sottoterra. L'isolamento dei cavi deve evitare
le dispersioni di corrente, deve tamponare qualunque eventuale e possibile
emorragia. E gli operai addetti alle macchine fasciatrici hanno anche nella
figura qualcosa che ricorda gl'infermieri e gli aiuti delle sale operatorie.
C'è ancora di più: il sistema di bendaggio (gomma, carta, miscela, olio)
ricorda molto da vicino i processi di mummificazione. Con la differenza che
davvero entro questa basilica si opera una difesa dell'anima., perché
l'elettricità è tutta anima e niente corpo. Il midollo di questi possenti
pitoni (lunghi anche mille metri e grossi fino a centocinquanta millimetri) è
quasi sempre triplice, ternario, perché in effetti, l'energia è trigemina. È un
triangolo. Una trinità ".
Vedete, ero già posseduto. Ero perduto.
Fu in quella stessa epoca che visitai alla Bicocca il prof. Allavena e
conobbi il dott. Oberto, e mi documentai sulle macromolecole, sulla memoria
della gomma (l'isteresi elastica è memoria!) e sull'influenza che il nerofumo
(in polvere millesimale) e lo zolfo (il fiato di Satana) esercitano
sull'assetto delle catene molecolari.
Così dopo un rapido noviziato, tra alchimia e tecnologia, presi il mio posto
tra produzione e distribuzione, tra operai e clienti. Ebbi poco tempo per
sottilizzare sulla vendita e sul vantaggio. Mi buttai nella mischia, mi
attaccai ai telefoni. Ogni gesto doveva da allora diventare pubblico,
manifestarsi, chiamare, soccorrere, spingere, urtare, sedurre. Fu allora,
novembre 1948, che intorno a noi, Luraghi, Tofanelli e io, cominciammo a
radunare gli amici e a coinvolgerli nelle nostre stesse responsabilità.
Devo dire di più. Luraghi accarezzava da tempo il progetto di una Rivista
Aziendale e per questa iniziativa aveva ottenuto il consenso del dott. Alberto
Pirelli e l'adesione degli altri direttori. Credo che ne parlasse a Tofanelli
fin dall'estate del 1948. E a quel tempo, infatti, risalgono le prime "
avances " che Tofanelli mi rivolse per convincermi a tornare a Milano,
sulla breccia. E in verità, ripreso a Milano il mio lavoro accanto a Luraghi,
trovai dopo qualche giorno già pronti un progetto che " in nuce " o
in bozzolo, o in germe, conteneva l'idea della Rivista. Lo so che " dal
germe di un'idea può nascere Apollo oppure un mostro ": devo dire che per
il calco già pronto non fu difficile scegliere il materiale meglio rispondente,
meglio aderente al disegno di quella forma.
Fu discusso a lungo il titolo, fu vinta anche la nobile riservatezza del
dottor Piero e del dottor Alberto: ci si convinse tutti che quel nome, meglio
di qualsiasi sigla astratta e di qualunque proposito presuntuoso, poteva
accogliere in Italia e all'Estero una massa imponente di amici guadagnati in
settanta anni. Rimando il lettore alle precise parole introduttive che
comparvero nel primo numero, a pag. 8, con la firma di Alberto Pirelli.
Che cosa distinse subito, fin dai primi numeri,
Pubblicammo in quattro anni tutti articoli di prima mano, tutti scritti
inediti. Provocammo incontri tra scienziati e giornalisti, tra tecnici e poeti.
Senza tema di commettere eresie mandammo i reporters negli studi, nelle aule,
nei laboratori a sorprendere con lampi di magnesio personaggi tanto illustri
quanto riluttanti, come Severi. Amaldi, Marcello, De Marchi, Gabrielli, Nervi,
Colonnetti, Ponti, Fauser, Padre Gemelli, Smeraldi.
Se si pensa che soltanto in questi ultimi anni il giornalismo italiano ha
guadagnato " in funzione " quanto ha perduto " in
rappresentazione ", se si considera che è tanto difficile da noi torcere
il collo alla retorica e che si può essere tacciati di improntitudine se si chiede
uno scritto su tema obbligato, perché il bau bau dell'ispirazione, non è del
tutto sotterrato, si comprende meglio il significato di un lavoro che, bene o
male, era una prova di sottomissione, non certo di orgoglio.
All'intelligenza italiana non si sollecitarono sviolinate ed exploits, ma
piuttosto constatazioni, sopraluoghi, rendiconti. Tanto meglio se qualcuno
riusciva ad accendersi di fronte a una tesi, a un incontro imprevisto, a uno
spettacolo, a un dispositivo. Devo confessare sinceramente che il tempo dei
Francesco Redi e degli Algarotti, per non dire dei Galilei e dei Cattaneo è
davvero lontano. La nostra cultura è quasi tutta impastata di storia e di
oratoria. È impastata per fortuna anche di poesia. E io credo nell'acume, nella
curiorità, nell'entusiasmo dei poeti: credo nella loro capacità di
sorprendersi, di riflettere, di approfondire.
Vorrei dire, di straforo, che una delle mie ambizioni fu proprio questa:
provocare, stimolare una prosa analitica piuttosto che il solito pezzo
commemorativo, un referto e non un inno, un commento non una predica. Io sono
sicuro che se i nostri scienziati e i nostri tecnici considerassero l'esercizio
della scrittura alla stregua di un'operazione dignitosa, (una vera e propria
lima del pensiero) qual è sempre stata per Leonardo o per Cartesio, per Leon
Battista Alberti o per Maxwell, per Linneo o per Einstein, e se viceversa i
letterati e i filosofi e i critici, come hanno fatto del resto Goethe e Valery,
Hegel e Bergson, Giedion e Dewey, accogliessero, con rinnovata simpatia, le
ipotesi e i risultati del calcolo e dell'esperienza, una concordia nuova
potrebbe sorgere tra le inquietudini e le stanchezze del nostro tempo, non
voglio dire un nuovo mito. È molto probabile che questo genere di letteratura
" a comando ", questo giornalismo tecnico prenda il sopravvento sulle
pagine scritte in libertà, sulla prosa gratuita, sulla scrittura
disinteressata. Abbiamo letto in questi ultimi giorni una " memoria "
che accompagnava la relazione di un bilancio di una grande società finanziaria
belga: un saggio sull'utilizzazione delle materie prime che poteva portare una
firma celebre, ed era invece soltanto una plaquette anonima. Io aspetto il gran
giorno in cui il Regno dell'Utile sarà rinverdito dalla cultura, dalle
metafore, dall'intel1igenza. Quest'estate ho aperto qualche libro dei nostri
illuministi, l'abate Galiani, Filangieri, Verri. Mi veniva da confrontare la
nitidezza dei loro pensieri e delle loro parole alle sbavature, alla schiuma,
alla sciattezza di tanti articoli di fondo dei nostri giornaloni. Ho cercato
sempre di stimolare nei collaboratori la ricerca di un'espressione meditata: ma
c'è ancora molto cammino da percorrere per guadagnare precisione e leggerezza.
Ho rispolverato alcuni vecchi ricordi e qualche memoria di ieri. Ho voluto
pagare il mio tributo a una città adorabile, a degli amici carissimi. Per i
miei lettori di oggi, i lettori di " Civiltà delle macchine ", ho
creduto, necessario dopo quasi tre anni di sodalizio (" Civiltà delle
macchine " prese forma, appunto tra il settembre e l'ottobre del 1952)
mettere sul tavolo anche le mie carte più antiche. La nuova impresa, temeraria
e affascinante a cui mi sono votato, in questi ultimi tre anni ha successi
superiori a ogni speranza. Siamo sicuri di poter fare ancora meglio.
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